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Riflessioni sulla guerra dal saggio "L’Iliade poema della forza" di Simone Weil

Un sunto del saggio di Simone Weil, sull'Iliade: benché si riferisca ad un avvenimento tanto lontano e addirittura trasfigurato dalla poesia, il saggio ci offre spunti di sconcertante attualità, d'altra parte Simone Weil lo scrisse nel 1939-41, allo scoppio della seconda guerra mondiale. Il testo doveva essere pubblicato sulla “Nouvelle Revue Française”, ma l’invasione tedesca lo impedì. Venne stampato a Marsiglia (dic. ’40 – gen. ’41) sotto uno pseudonimo, fu pubblicato dopo la guerra col vero nome dell’Autrice.

Vero eroe, vero argomento, centro dell’ ”Iliade” è la forza.

Nell’Iliade non si trova un solo uomo che ad un certo momento non sia costretto a piegarsi sotto la forza. Gli eroi tremano come gli altri.

Infatti a forza d’essere cieco, il destino stabilisce una sorta di giustizia, cieca anch’essa, che punisce con la legge del taglione: “Ares è equanime e uccide quelli che uccidono”.

Il forte non è mai assolutamente forte, né il debole assolutamente debole, ma l’uno e l’altro lo ignorano. Essi non si credono della medesima specie.

Coloro cui la forza è stata prestata dal destino periscono per troppa sicurezza. Non possono non perire. Essi pensano che il destino ha dato a loro ogni diritto e nessuno ai loro inferiori. Da quel momento essi vanno aldilà della forza di cui dispongono. Ignorano che quella forza ha dei limiti, sono allora abbandonati al caso e le cose non gli obbediscono più.

Tale castigo di un rigore geometrico, che punisce automaticamente l’abuso della forza, fu il primo oggetto della meditazione dei Greci. Ma l’Occidente oggi ha perduto questa nozione, non ha più in nessuna lingua, una parola che la esprima: le idee di limite, misura, equilibrio che dovrebbero determinare la condotta della vita, non hanno più che un impiego servile nella tecnica. Noi siamo geometri solo di fronte alla materia, i Greci furono geometri nell’apprendimento della virtù.

Il corso della guerra nell’ ”Iliade” è questo gioco pendolare. Il vincitore del momento dimentica di usare la vittoria come una cosa destinata a passare.

Un uso moderato della forza, che solo permetterebbe di uscire dall’ingranaggio, richiederebbe una virtù più che umana, dote non meno rara che una costante dignità nella debolezza.

Vi sono nell’Iliade parole ragionevoli, ma cadono nel vuoto: i combattenti sono condannati alla guerra:

La paura, la morte trasformano quello che all’inizio sembra il “gioco della guerra”. Che uomini abbiano per avvenire la morte è contro natura; l’anima patisce violenza tutti i giorni, si mutila di ogni aspirazione. La guerra arriva a cancellare anche lo scopo della guerra, cancella persino il pensiero di metter fine alla guerra. L’anima sottomessa alla guerra invoca liberazione, ma questa appare sotto la forma tragica, estrema della distruzione. Inoltre la morte dei compagni suscita una cupa emulazione di morte.

Quando si è dovuta distruggere ogni aspirazione di vita in se stessi, per rispettare in altri la vita è necessario uno sforzo di generosità da spezzare il cuore.

Il guerriero che vince, posseduto dalla guerra, è divenuto, non meno dello schiavo sebbene in tutt’altro modo, una cosa!

Il potere della forza di trasformare gli uomini in cose è duplice, pietrifica, diversamente, ma ugualmente, le anime di quelli che la subiscono e di quelli che la usano. Tale proprietà tocca il più alto grado nella guerra.

Ma il rischio di una tetra monotonia è sventato dal fatto che, disseminati qua e là, vi sono momenti luminosi, brevi e divini, nei quali gli uomini hanno un’anima. Vi hanno posto solo il coraggi e l’amore. Vi sono infatti nel poema quasi tutte le forme pure dell’amore tra gli uomini:

Oltre a questi episodi a evitare che un tale cumulo di violenze divenga freddo, vi è sempre un accento di amarezza inguaribile, spesso indicato da una sola parola o addirittura da un taglio di verso, da un rimando. Proprio in questo l’Iliade è unica: in questa amarezza che procede dalla tenerezza e che si stende su tutti gli umani ugualmente, eguale come il chiarore del sole. Il tono non cessa mai d’essere intriso d’amarezza, non si abbassa mai al lamento. Nulla di prezioso, sia o non destinato a perire, è disprezzato, la miseria di tutti è esposta senza dissimulazione o disdegno, nessun uomo posto al di sotto o al di sopra della condizione comune a tutti gli uomini, tutto ciò che è distrutto è rimpianto.

La straordinaria equità che ispira l’”Iliade” non ha avuto imitatori. A malapena ci si accorge che il poeta è greco e non troiano. Nell’Iliade l’amarezza verte sull’antica giusta causa di amarezza: la subordinazione dell’anima umana alla forza, vale a dire, in fin dei conti, alla materia. Questa subordinazione è la stessa in tutti i mortali, sebbene l’anima la porti diversamente secondo il grado di virtù. Nessuno vi si sottrae nell’Iliade come sulla terra. E nessuno di coloro che vi soccombono è considerato spregevole. Tutto ciò che nell’anima e nei rapporti umani sfugge all’imperio della forza è amato, ma dolorosamente per quel pericolo di distruzione continuamente sospeso.

Il sentimento della miseria umana è una condizione della giustizia e dell’amore. Colui che ignora fino a qual punto la volubile fortuna e la necessità tengono ogni anima umana alla loro mercé, non può considerare suoi simili né amare come se stesso quelli che il caso ha separato da lui con un abisso. Non è possibile amare né essere giusti se non si conosca l’imperio della forza e non lo si sappia rispettare. Nulla è più raro di una giusta espressione della sventura.

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