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Referendum costituzionale: un’incognita per l’Italia e per l’Europa

Il 5 dicembre il premier italiano Matteo Renzi potrebbe dimettersi. O, almeno, ciò è quanto ha lasciato intendere. Il giorno precedente, infatti, i cittadini saranno chiamati alle urne per confermare o meno le riforme costituzionali volute dal Presidente del Consiglio: il punto principale è il superamento del bicameralismo perfetto ideato dai fondatori della Repubblica all’uscita dal ventennio fascista e dalla guerra per impedire un’eccessiva concentrazione del potere. In Italia, infatti, attualmente le due Camere hanno gli stessi poteri e una legge, per essere promulgata, deve essere approvata in entrambe nella stessa forma. 

Una semplificazione dell’iter legislativo è da sempre nell’agenda politica dei maggiori partiti, senza però essere mai stata portata a termine. Fino ad oggi.

L’attuale governo di centro-sinistra, che ha la maggioranza in Parlamento grazie all’alleanza con gruppi di centro e centrodestra, negli ultimi due anni ha varato la più corposa riforma costituzionale della storia della Repubblica Italiana.

Essa prevede una trasformazione dei poteri del Senato: questo – che passa da 320 a 100 membri – non dovrà più concedere la fiducia al governo in carica e non sarà più direttamente eletto dai cittadini, perché i senatori saranno scelti tra i sindaci e consiglieri delle Regioni. Le leggi ordinarie verranno scritte dalla Camera dei Deputati, mentre il Senato potrà soltanto chiederne la modifica in modo non vincolante. Potrà, inoltre, proporre progetti di legge che starà all’altro ramo del Parlamento approvare o respingere. Continuerà ad essere in vigore il bicameralismo perfetto, invece, per le modifiche costituzionali, le leggi elettorali, quelle concernenti le autorità locali e l’Unione Europea.

Nonostante venga introdotta la possibilità dei referendum propositivi, l’innalzamento del numero di firme da raccogliere renderà difficile, se non impossibile, presentare proposte di referendum sia abrogativi che propositivi, limitando così gli spazi di partecipazione dei cittadini. Lo stesso discorso vale per le leggi di iniziativa popolare.

Ora gli italiani dovranno votare per decidere se dare il proprio consenso alle modifiche della Costituzione. I favorevoli vantano la maggiore velocità dell’iter legislativo che si otterrebbe, mentre i contrari – oltre a denunciare l’incomprensibilità del testo – tendono a smentire questo luogo comune. I dati, infatti, dicono che il Parlamento romano è tutt’altro che lento, riuscendo ad approvare una legge in media ogni quattro giorni. Altre, invece, per le quali non vi è la volontà politica di trovare un accordo – anche a causa di leggi elettorali che rendono incerta una maggioranza stabile in Aula – non vengono promulgate. Infine, le opposizioni criticano la riforma perché diverse elezioni locali, che determineranno chi diventerà senatore, si tengono ogni anno. In questo modo, mentre la Camera dei Deputati sarebbe nelle mani dello stesso governo per l’arco di una legislatura, il Senato cambierebbe composizione ogni dodici mesi. Rischiando di non avere la stessa maggioranza della camera bassa.

E’ difficile comprendere – soprattutto dall’estero – la paradossale composizione degli schieramenti favorevoli e contrari alla riforma. Da una parte c’è il governo, la maggioranza composta dai partiti di centro insieme al Partito Democratico, alcuni importanti movimenti e sindacati cattolici, con l’appoggio dalle grandi banche e degli industriali, che teoricamente dovrebbero avere una tendenza conservatrice e che, invece, in questo caso sottolineano fortemente la necessità del cambiamento istituzionale. Dall’altra parte, contro la riforma ci sono i partiti di destra e xenofobi, quelli di sinistra, i movimenti alternativi, il principale sindacato dei lavoratori, l’associazione dei partigiani, i più autorevoli costituzionalisti e Mario Monti, già premier che ha interpretato la politica dell’austerity raccomandata dall’Europa. La confusione è marcata anche nel Partito Democratico, nel quale il segretario Matteo Renzi è il principale sponsor del Sì, mentre l’ex segretario Pierluigi Bersani ha deciso di votare No insieme alla sinistra del partito.

Un cambiamento “fondamentale” l’ha definito Matteo Renzi, legando l’esito del referendum a quello della propria carriera politica. “Se vince il NO (alla riforma, ndr), mi dimetto” ha aggiunto, quando i sondaggi davano i cittadini largamente favorevoli alla nuova Costituzione. Credeva così di rafforzare la propria figura politica, ma ha creato l’effetto opposto: molti cittadini approfitteranno della situazione per bocciare il governo. Ora pare infatti vi siano alte possibilità che vinca il NO. E quindi che, il 5 dicembre, il premier rassegni le proprie dimissioni, creando una situazione di instabilità per l’Italia e l’intera Unione Europea che dovrà già affrontare, nei prossimi mesi, le insidiose elezioni francesi. Un rischio creato dallo stesso Renzi e dalla personalizzazione fatta del referendum, dalla quale ormai non si può più tornare indietro.

 

Foto: Palazzo Chigi/Flickr

Questo articolo è stato pubblicato qui

Commenti all'articolo

  • Di GeriSteve (---.---.---.168) 21 novembre 2016 13:14

    Un articolo costruito intorno ad una affermazione - promessa di Renzi (se vince il NO mi dimetto) non è un articolo serio.

    Dirà che è stato frainteso, che glielo chiede l’Italia, l’Europa, la Massoneria, il papà... oppure sarà troppo stanco per inventarsi un’altra bugia e non dirà proprio niente.

    L’unica cosa certa è che resterà ben attaccato alla poltrona, fino a che qualcun altro gli farà lo sgambetto, sempre evitando di domandare il parere dei cittadini...

    GeriSteve

    • Di vittorio3 (---.---.---.239) 22 novembre 2016 10:08

      Però voteranno comunque NO perché così mandiamo a casa Renzi !

      Forse però non sanno che, quand’anche a seguito di vittoria del NO Renzi desse le dimissioni, Mattarella non potrebbe far altro, come prescrive la prassi costituzionale, che accettarle con riserva avviando poi un giro di consultazioni per verificare qual’è realmente la posizione dei partiti a tal proposito e quale alternativa di governo propongono.

      Ne emergerebbe che PD (301 deputati su 630 = 48% dei seggi) e NCD-UDC (30 dep.=5%) non vogliono cambiare, M 5 stelle (14%) esclude di potersi alleare con chicchessia salvo forse Fratelli d’Italia (1,6%), Salvini della Lega (3%) non vuole neppur sentir parlare né di Alfano né di Parisi (cioè quel che resta di Forza Italia inizialmente con l’8% dei seggi ma oggi chi sa ?) ma potrebbe il leghista “ce l’ha duro” raggiungere la stratosferica quota del 7-8% (3% suoi + 1,6 FdI + qualche deputato transfuga da Forza Italia e altri), mentre infine Sinistra Italiana e SEL (5%) non si unirebbero certo a un PD “apostata” ... e starebbero come amano e conviene loro all’opposizione.

      Il paziente Mattarella farebbe un secondo giro di consultazioni alla ricerca di una qualche coalizione credibile di governo (cosa assai diversa da “fronti del no” eterocliti e divergenti su quasi tutto) capace di ottenere la fiducia del Parlamento (almeno 316 deputati), ma poiché rileverebbe che nessuna, a parte quella PD-NCD, si avvicina alla maggioranza ma solo forse a 250 (includendo eventuali transfughi PD amici di Bersani-Cuperlo-Spaventa, peraltro non consultabili da Mattarella poiché non rappresentano nessun partito)  dovrebbe inevitabilmente rifiutare le dimissioni di Renzi suggerendogli magari un rimpasto tattico di governo.

       

      Sarebbe a dire “partigiani del NO per cambiare”, becchi e bastonati ! Non sia mai !

      Ci penseranno prontamente e giovanilmente D’Alema e Berlusconi (rispettivamente Presidente e co-fondatore della celebre ma sterile Bicamerale per le Riforme Costituzionali degli anni ’90) ... a rimettere il tutto in carreggiata !

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