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Referendum, acqua: un po’ di storia

SPECIALE: Leggi la guida al voto di AgoraVox  

Sotto il profilo giuridico, la storia parte da lontano e più precisamente da quando, sotto il governo Giolitti, venne approvata la legge nazionale per la municipalizzazione degli acquedotti, nel 1903. Novantuno anni dopo, a fronte delle gravi inefficienze del sistema, la legge Galli (n. 36 del 5 gennaio 1994) vera madre della legge Ronchi, ha ristrutturato il modello di gestione della risorsa idrica, tenendo fermo l’impianto pubblicistico, ma aprendo anche al privato. È stato anzitutto sancito il principio del full recovery cost, la cui ratio legislativa è la seguente: la tariffa deve garantire un’adeguata remunerazione del capitale investito e pertanto ognuno paga in bolletta il 7% di quanto il gestore ha investito. Inoltre, di fronte all’eccessiva frammentazione dei gestori, la legge Galli (ora assorbita dal Decreto Legislativo n. 152 del 5 aprile 2006) ha attribuito ai Comuni e alle Province, organizzati in Autorità d’ambito territoriale ottimale (Ato), il compito di riorganizzare i servizi di acquedotto, fognatura e depurazione in un servizio idrico integrato (SII). In particolare, la legge Galli ha introdotto il concetto di ciclo integrato dell’acqua e quindi la necessità di un unico gestore per l’intero ciclo e ha a tal fine individuato gli Ato in corrispondenza, almeno in linea teorica, dei bacini idrografici (in realtà sono stati ricalcati i confini amministrativi). Altro punto cardine del sistema Galli concerne più specificatamente l’apertura alla privatizzazione dell’acqua attraverso il c.d. “affidamento”: in altre parole, si stabilisce che per ogni Ato deve essere scelto un unico soggetto gestore cui affidare le chiavi dell’acquedotto per un lasso di tempo non superiore a 30 anni e che l’assemblea dell’Ato, composta dai sindaci (o da loro rappresentanti) di tutti i comuni riuniti in un solo ambito, decide le modalità dell’affidamento. Questo può essere di tipo diretto, a favore di una società per azioni a totale capitale pubblico (e in tale caso prende il nome di “affidamento in house”) oppure può fondarsi su una gara aperta a concorrenti europei al fine di scegliere un partner privato da affiancare al vecchio gestore pubblico.

Successivamente, nel 2000, è arrivato il Tuel, il Testo Unico Enti locali (D.Lgs. 18 agosto 2000, n. 267) che ha previsto tre modalità di affidamento per la gestione del servizio idrico: alle Spa private scelte con gara; alle Spa miste pubblico-private e infine alle Spa pubbliche tramite affidamento diretto. Ancora, con la finanziaria per il 2002 (l. 448 del 2001), il Governo Berlusconi ha previsto l’obbligo di affidamento tramite gara dei “servizi a rilevanza industriale” e l’apertura alla concorrenza di diversi settori tra cui quello idrico. Sarà poi lo stesso Governo Berlusconi (2001-2006) a fare un parziale passo indietro rispetto al dogma della messa a gara, affiancando, con l’articolo 14 del decreto legge n. 269 del 30 settembre 2003, altre due modalità di affidamento dei servizi pubblici locali a quella del ricorso al mercato. Ancora sei anni dopo è intervenuto il decreto legislativo n. 152 del 2006, che ha ribadito le tre modalità di gestione fissate dal Tuel, mentre con la legge Bersani del 2006 (l’art. 13 della legge 4 agosto 2006, n. 248), nell’intento di tutelare la concorrenza, si è disposto che le società strumentali delle amministrazioni pubbliche locali o regionali operino esclusivamente con gli enti costituenti ed affidanti e non svolgano prestazioni a favore di altri soggetti pubblici o privati, né in affidamento diretto né con gara. In particolare, la legge Bersani ha chiarito che soggetti esclusi dall’ambito di applicazione della norma sono le società costituite o partecipate da amministrazioni pubbliche locali o regionali che forniscono servizi pubblici locali.

Con la legge finanziaria per il 2008 (art. 3 commi 27-29 della L. 24 dicembre 2007, n. 244), la Legge Bersani non solo viene confermata per le amministrazioni regionali e locali, ma anche estesa sul piano soggettivo a tutte le amministrazioni dello Stato, ivi incluse quelle che direttamente o indirettamente gestiscono servizi pubblici locali. Tuttavia sul piano oggettivo, il divieto per le amministrazioni pubbliche di assumere nuove partecipazioni o mantenere quelle possedute conosce un’importante novità che riguarda la c.d. eccezione “funzionale”: in altre parole, il rispetto dei fini istituzionali propri dell’ente pubblico costituisce il primo limite alla costituzione o partecipazione a società per la produzione di beni o servizi; quindi l’amministrazione pubblica può assumere o mantenere la partecipazione in una società che produce un bene o servizio strettamente necessario ai fini istituzionali della stessa amministrazione.

Infine, con il Governo Berlusconi dell’attuale legislatura, la storia normativa del bene acqua si dirige velocemente verso la privatizzazione. Nel 2008, con la c.d. manovra estiva, varata con ildecreto legge n. 112 del 25 giugno 2008 (legge di conversione 6 agosto 2008, n. 133) si è stabilito che le modalità ordinarie sono quelle dell’affidamento ai privati tramite gara e che, solo in via derogatoria, l’affidamento può essere fatto senza gara e verso società a totale capitale pubblico, le c.d. in house, in linea con i tre criteri Ue. La riforma del servizio idrico che, di fatto, privatizza definitivamente la gestione dell’acqua, è stata introdotta con il via libera definitivo dell’Aula della Camera al decreto legge Ronchi sugli obblighi comunitari che ne disciplina la gestione in una norma ad hoc. La legge Ronchi (l. 20 novembre 2009, n. 166) ha infatti ancor meglio realizzato l’obiettivo privatizzatore: come fu per il caso del decreto legge n. 112 del 2008, sempre con la motivazione di dover emanare “disposizioni urgenti per l’attuazione degli obblighi comunitari e per l’esecuzione di sentenze della Corte di Giustizia delle Comunità Europee”, manda in soffitta tutte le gestioni in house entro il 31 dicembre 2011 a meno che entro questa data la società che gestisce il servizio non sia per il 40% affidata a privati. La norma, in particolare, prevede due modalità per la gestione dell’acqua in via ordinaria ed un’altra in via straordinaria. Si stabilisce così che la gestione del servizio idrico debba essere affidata ad un soggetto privato scelto tramite gara ad evidenza pubblica oppure ad una società mista (pubblico/privato) nella quale il privato sia stato scelto con gara. Oppure, ed é il caso straordinario, la gestione del servizio idrico può essere affidata (“in casi eccezionali”) in via diretta, vale a dire senza gara, ad una società privata o pubblica. In tal caso, però, si deve trattare di una società in house, ossia una società su cui l’ente locale esercita un controllo molto stretto e si noti che ciò è possibile solo in“situazioni eccezionali che, a causa di peculiari caratteristiche economiche, sociali, ambientali e geomorfologiche del contesto territoriale di riferimento, non permettono un efficace e utile ricorso al mercato”. Quindi la logica che sta dietro tale provvedimento pare essere quella secondo cui, poiché il privato si muove solo se intravede un profitto, nei territori definiti peculiari, dove l’acqua non è profittevole, l’affidamento può essere dato anche a società interamente pubbliche: in sostanza, il Governo è costretto a imporre la privatizzazione dei soggetti gestori poiché gli Ato dal 1994 ad oggi hanno scelto nella maggioranza dei casi gestioni pubbliche! In definitiva, non pare azzardato sostenere che il decreto Ronchi esprime una scelta politica, rafforzando due dei tre vigenti modelli: il regime privatistico tout court ed il regime misto (pubblico-privato). Al contrario, il modello dell’affidamento diretto in house viene posto come deroga ed eccezione. Si tratta di una scelta politica che più che incidere sul regime della concorrenza incide sugli assetti proprietari (pacchetti azionari e infrastrutture).

È bene inoltre interrogarsi sul come si è proceduto ad una tale riforma del settore idrico: sia l’articolo 23-bis del decreto legge n. 112 del 2008, sia la legge Ronchi giustificano la messa a gara dei servizi pubblici locali di rilevanza economica con l’applicazione della disciplina comunitaria. Ma l’obbligo di esternalizzazione dei servizi pubblici locali previsto dalla legge italiana non trova fondamento né nei Trattati, né in altra fonte del diritto comunitario: gli Stati membri sono liberi di decidere se fornire direttamente i servizi pubblici (e quindi se consentire alle autonomie locali di fare altrettanto) oppure se affidarli al settore privato. Tale concetto viene ribadito con chiarezza dal protocollo sui servizi di interesse generale del recente Trattato di Lisbona e dall’art. 14 (ex art. 16 TCE) del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea. Il diritto comunitario della concorrenza non si occupa espressamente dei servizi pubblici locali: l’unica preoccupazione del diritto comunitario è che, una volta deciso di affidare un servizio all’impresa privata, questo affidamento debba avvenire nel rispetto del principio di concorrenza e senza discriminare le imprese in base alla loro nazionalità.

Di fatto, al fine di recidere le basi culturali e tecnico-gestionali della privatizzazione dei servizi pubblici essenziali, attraverso il decreto Ronchi, la società civile ha deciso di tentare lo strumento referendario. I quesiti referendari, volti all’abrogazione dell’art. 23-bis della decreto legge n. 112 del 2008 relativo alla privatizzazione dei servizi pubblici di rilevanza ed al ripristino degli Ato, sono tesi, evidentemente con tutti i limiti di tale fonte normativa priva di capacità propositiva, a creare i presupposti, in attesa di una legge nazionale, per reintrodurre nell’ordinamento giuridico italiano l’affidamento della gestione dell’acqua ad un soggetto di diritto pubblico. Relativamente al merito dei quesiti referendari proposti, si veda questo articolo.

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