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Reddito di cittadinanza: serve, ma non così

Aumentano i beneficiari del reddito di cittadinanza, come ci si aspetterebbe in una depressione economica come l'attuale. Ma attenzione che la "trappola della povertà" che il reddito determina non ponga una pesante ipoteca sulla qualità della ripresa

Secondo i dati Inps, i nuclei familiari percettori di reddito di cittadinanza ad agosto erano aumentati del 23% rispetto al mese di gennaio. Occorre leggere il dato e accertarne le determinanti, ma serve anche fare una riflessione sullo strumento. Che non va abbandonato ma ripensato. Perché, come è attualmente costruito, rischia di essere una trappola della povertà e di perpetuare il mercato informale del lavoro, cioè il sommerso.

I numeri: 1,304 milioni di famiglie coinvolte in agosto rispetto a 1,059 milioni di inizio anno, con un aumento del 20% delle teste, passate da 2,562 milioni a 3,081 milioni negli otto mesi trascorsi. L’aumento è costante, se si pensa che il 16% delle domande sono state protocollate dopo il mese di marzo, inizio del lockdown.

Una spinta alle domande può essere venuta dalla necessità di accertare il proprio ISEE per fruire di alcune erogazioni previste durante la pandemia. Detto incidentalmente, questa necessità appare alla base anche del balzo in avanti del numero di italiani dotati di SPID, aumentati di 4,5 milioni nel 2020, per un totale di 10 milioni di identità digitali sinora attivate.

L’importo medio nazionale del reddito di cittadinanza è di 569 euro pro capite, con un minimo di 470 a Nord Est e 606 nelle isole. Cosa ci suggeriscono, questi numeri? Intanto, ribadiamo che parliamo di reddito di cittadinanza, da non confondere con la pensione di cittadinanza. Il primo si rivolge a soggetti in età lavorativa, la seconda è la versione over 67 del primo ed attualmente beneficia 167 mila persone con esborso medio mensile di 245 euro. Si tratta della integrazione alla somma di 780 euro per nuclei familiari in cui vi è un pensionato.

Restiamo nell’ambito del reddito di cittadinanza, quindi. Da questi pixel abbiamo fatto presente, da subito, soprattutto con i contributi di Luigi Oliveri, che il RdC è costruito in modo cervellotico, nel senso che frammischia politiche del lavoro e politiche sociali. Nello specifico, mette in un unico bacino di trattamento e beneficiari sia i soggetti dotati di competenze lavorative che quelli marginali e ultra marginali, destinati ad essere seguiti dai servizi sociali.

Da quando è nato, il Reddito di cittadinanza è stato oggetto di polemiche di segno opposto. Da un lato, quelli che lo considerano un sussidio pressoché parassitario, dall’altro quelli che denunciano che la scala di equivalenza per famiglie numerose è troppo schiacciata, e di conseguenza la lotta alla povertà risulta inefficace. Mi pare ci sia del vero in entrambe le posizioni.

Il reddito di cittadinanza, nei soggetti idonei al lavoro, può determinare una riduzione di offerta, soprattutto in contesti in cui il sommerso appare radicato o in espansione. Difficile disputare questa considerazione, mi pare. D’altro canto, in Italia ci sono zone talmente desertificate, in termini di lavoro “formale”, cioè “in chiaro”, che è apparso da subito difficile immaginare che il mitologico incrocio tra domanda ed offerta potesse servire a qualcosa di sostanziale.

Ma immaginate che, post pandemia, alcune attività di servizi, in precedenza svolte in modo ufficiale, scompaiano per riapparire in modo “sommerso”, con la convergenza tra datori di lavoro, che vogliono liberarsi di oneri eccessivi rispetto al povero valore aggiunto che riescono a generare, e lavoratori che percepiscono il reddito di cittadinanza ed un salario in nero. Risultato: basi imponibili scomparse, guai molto seri per la collettività.

Il reddito di cittadinanza, inoltre, non pare avere scadenza. Per ora, ci sono cicli triennali ma appare assai difficile che il governo pro tempore decida la progressiva rimozione della misura di fronte a numerose situazioni di persone che non riescono a trovare lavoro. Di conseguenza, in alcune regioni e aree italiane, alcuni potrebbero passare senza soluzione di continuità dal reddito alla pensione di cittadinanza.

Detto in soldoni, il reddito di cittadinanza innalza il salario di riserva, cioè quello al di sotto del quale il lavoratore decide di non lavorare. Ecco perché, in prospettiva, il rischio è che questo strumento di welfare, incompiuto e ibrido in modo disfunzionale, contribuisca a frenare lo sviluppo dell’attività economica regolare. Cioè crei isteresi, bloccando il mercato del lavoro in un cattivo equilibrio. Non solo nei territori desertificati sul piano produttivo, come tipicamente quelli del Mezzogiorno, ma anche al Nord, nei distretti in crisi manifatturiera che cercano di ritrovare una missione.

Preciso ad nauseam: non sono contro il concetto di reddito di cittadinanza. Sono contro il modo in cui questo istituto di welfare è stato declinato in un paese che ha un tasso di attività sudamericano o mediorientale. Serviva (serve), distinguere le erogazioni sociali dalle politiche attive del lavoro, altrimenti le seconde verranno affondate dal clientelismo che avvolge le prime. Scusate inoltre la reiterazione, ma per il contrasto al fenomeno dei working poor serve uno strumento del tipo Earned Income Tax Credit. Ed anche un salario minimo, ma solo nel caso in cui la contrattazione collettiva venga decentrata a livello aziendale e territoriale. E serve anche ridurre il numero di proposte di lavoro “congrue” che si possono rifiutare.

In altri termini serve evitare che, passata la pandemia, il paese non riesca a riattivarsi o lo faccia in modalità sommersa. Sarebbe l’ennesimo chiodo nella bara italiana.

Questo articolo è stato pubblicato qui

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