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"Rapito" di Marco Bellocchio

Un film che si fa guardare, dalla fotografia molto curata e la prevedibile cupezza (per l'argomento e, ovviamente, per il regista che allegro non è mai stato). Eccellente recitazione, audio non perfetto (ma forse sono io che sto diventando sordo per l'età che avanza).

Attenzione, qualche spoiler.
 
Tratteggiata con sufficiente destrezza la doppiezza ecclesiastica che si dice misericordiosa mentre mette in atto la violenza papalina, accennato di sfuggita - ma con la sensazione di un freddo distacco emotivo (alias menefreghismo di sostanza) - l'evidente antisemitismo, storicamente accertato, con accusa di deicidio en passant e arroganza prevaricatrice del soglio di Pietro sui perfidi giudei, il tema centrale rischia di rimanere sommerso da troppe cose, ma che c'è, è lì.
 
L'identificazione della vittima con il proprio aggressore, con il violentatore. Che determina la propria morte psichica, se si è un bambino in mancanza (palese) di un possibile sostegno affettivo e/o di un terapeuta.
 
Identificazione che appare da subito quando il piccolo Mortara rapito si identifica, per il trauma insopportabile del rapimento, con il bambino cristiano morto il cui funerale scorre sulla riva del canale che lo porta verso Roma. Che poi quel morto è anche Gesù, ucciso dai perfidi di cui sopra, dice la beghina. L'identificazione con l'aggressore, cioè esattamente quello che accadde nella storia reale del Mortara fattosi prete, nonostante i deliranti vagheggiamenti di qualche nostalgico del Papa Re o, almeno, del Papa polacco che lo beatificò (che infamità, davvero).
 
Identificazione e oppressione da cui liberarsi che qui torna a riempire un'altra casella del percorso del regista che da sempre suona quel tasto. Con la ribellione omicida in Pugni in tasca contro la madre cieca, o con il rifiuto troppo debole della sorella oppressa dal fratello schizoide in Salto nel vuoto, del Moro prigioniero degli uni ma anche degli altri. Eccetera. Nonostante il rifiuto riuscito invece (ma qui c'era Fagioli che dava una mano) della protagonista di Diavolo in corpo, contro il fidanzato brigatista pentito, la suocera ossessiva e lo psicanalista suadente che la invitava a normalizzarsi: "la psicanalisi non cura, ma aiuta ad adattarsi" (che qui torna nel ragazzetto romano del ghetto, convertito anche lui, che invita il rapito a "farsi furbo", cioè ad adeguarsi alla nuova vita di sottomesso), il regista ci racconta oggi la resa totale all'identificazione con l'aggressore. Non c'è più rifiuto né ribellione e nemmeno resistenza.
 
Se nella storia manco l'arrivo dei bersaglieri è servito per intaccare il potere reale della Chiesa, manco il primo colpo di cannone contro Porta Pia (sparato nella realtà per ordine di un capitano d'artiglieria ebreo, tanto per chiudere il cerchio) e, in effetti, nulla è servito agli ebrei che andarono incontro a un destino ben peggiore di una banale conversione.
 
Sembra quasi nell'alternarsi di preghiere e ritualità in latino e in ebraico che per il rapito non ci sia alcuno scampo, come non ce n'è per la giustizia quando ad alternarsi sono la messa e il processo laico del nuovo stato nazionale. Il Potere non giudica(va) mai il Potere che ha appena sostituito (dopotutto Norimberga era ancora lontana).
 
E se tutto è uguale a tutto, come poter pensare di sfuggire? Solo perché la madre sofferente e morente rivendica una sua identità ebraica da difendere fino alla fine contro la violenza assimilatrice (pure del figlio perduto) con le buone della conversione o con le cattive della forza bruta? Un po' troppo poco per salvarsi. E infatti non si salva nemmeno dopo l'ultimo barlume di rivolta impotente, un grido di ribellione ma niente di più, contro il cadavere di quel Papa che gli è stato patrigno se non padre. Fine della storia, insomma.
 
E c'è da chiedersi perché questa fine della speranza di uscire vittoriosi dal confronto, spesso durissimo, con l'oppressore, venga raccontata oggi da un regista dal percorso storico che conosciamo.
 
Ma i bambini che si rincorrono nella casa in penombra con i camicioni bianchi anche basta, per favore Bellocchio. L'abbiamo visto quintundicimila volte e, davvero, non se ne può più.

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