• AgoraVox su Twitter
  • RSS
  • Agoravox Mobile

 Home page > Tribuna Libera > Politica e linguaggio: "La schiavitù è libertà"

Politica e linguaggio: "La schiavitù è libertà"

La degenerazione politica oggi è percepibile, ma anche causata, dall'imbarbarimento generale dei linguaggi, visibile chiaramente dalla strategia elettorale adottata nelle recenti elezioni amministrative.
Per comprendere davvero come funziona oggi l'ideologia del nuovo volto del potere bisogna demistificare l'immagine offerta e preconfezionata del "nemico" attraverso l'analisi del falso concetto di tolleranza, così come inteso oggi nei discorsi fintamente democratici. 
Perché nel nome della libertà, ci renderanno schiavi.

In un articolo del 1946, intitolato Politics and the English language, George Orwell afferma che se è vero che la degenerazione del linguaggio è determinata da fattori politici e storici è anche vero l’opposto: cioè l’imbarbarimento linguistico, e in particolare il decadimento della prosa, determina a sua volta un’incapacità di elaborare il pensiero. Il linguaggio corrompe il pensiero

Un po’ come una persona che sentendosi un fallito inizia ubriacarsi: se è vero che il suo fallimento è la causa della dipendenza dagli alcolici, è anche vero il contrario, cioè che la birra determinerà un maggiore fallimento.
Questa parafrasi sembra calzante per introdurre il nostro discorso: possiamo inquadrare il clima politico delle ultime tornate elettorali, e in senso generale la mutazione politica degli ultimi anni, partendo dalla degenerazione contenutistica dei programmi. E viceversa: se i toni accesi della campagna elettorale sono la causa di questa degenerazione-linguistica di contenuti, bisognerebbe analizzare la prospettiva inversa, altrettanto vera: è proprio questa retorica populista, e quindi un linguaggio violentato da frasi senza senso e da slogan vuoti, che causa un’incapacità di pensare pacatamente ai problemi politici.

Delle ultime elezioni amministrative, soprattutto a Milano e Napoli, si è detto molto: ma credo che non si sia detto a sufficienza sulle diverse strategie di propaganda utilizzate, ovvero sulla retorica e sulla finzione montata per ottenere consenso elettorale. Partire da questa prospettiva, cioè dal nesso politica e propaganda, può essere una chiave di lettura interessante per comprendere alcuni meccanismi del potere.

A Milano, dopo la parziale, inaspettata sconfitta di Moratti, merita attenzione infatti constatare il progressivo tentativo da parte del team del sindaco uscente di demonizzazione del nemico: in vista del ballottaggio, oltre al solito spot- slogan berlusconiano del “meno tasse”, si è cercato di colmare la distanza elettorale giocando di “default”, demoralizzando sempre più l’antagonista. La strategia di consenso si è basata fondamentalmente sul tentativo di far passare l’eventuale vittoria dell’avversario Pisapia come una minaccia all’ordine costituito, un pericolo: l’estremismo rosso, la zingaropoli, i musulmani etc. Non c’è una vera progetto costruttivo sui contenuti, ma solo una volontà di delegittimazione del nemico.

Lo stesso Pisapia denuncia questo clima di terrorismo affermando, addirittura, che ci sarebbero persone che fingendosi suoi sostenitori spaventano i cittadini milanesi, proclamando di essere estremisti dei centri sociali o magari zingari o affermando di voler costruire moschee. Perfino il tema dell’omosessualità, ritorna a nel calderone della battaglia politica. Proprio in un recente articolo dell’Espresso (Pdl e lega ossessione gay) si mette in rilievo come nelle stesse recenti elezioni amministrative si agita lo spauracchio del pericolo omosessuale (!): “E' la nuova bandiera della destra. Dopo il comunismo, arriva il pericolo gay. Uno spauracchio agitato ormai ogni giorno sui giornali del premier, per cercare di vincere le comunali di Milano e di Napoli” .

Dunque, parlando in termini schmittiani, sappiamo che la politica si fonda sulla distinzione amico nemico; da sempre si è cercato di identificare e demonizzare il nemico; ma la peculiarità, oggi, è che questo avviene in modo più celato, e avviene proprio sul falso concetto di tolleranza; sullo sfondo della libertà democratica. Si negano i diritti democratici proprio facendo appello agli stessi. Il livello di separazione di un termine dal suo significato ha raggiunto, oggi, una distanza incolmabile ed è sintomatico della nostra società.

Si intende l’opposto di quello che significa: un po’ come la celebre ossimorica affermazione di Orwell “La schiavitù è libertà”.

Non mi riferisco solo ad un aspetto meramente formale, cioè l’articolazione del discorso che diviene sempre più simile ad un tabloid, si pensi, per esempio, al manifesto apparso prima delle elezioni a Milano che accostava le Br alla magistrature: il fine è quello di suscitare scoop in chi lo legge, proprio come una testata giornalistica, con accostamenti impropri e allusivi.

Ma mi riferisco in generale al Politically correct e al falso concetto di intolleranza così come inteso oggi. Per esempio, parlando dell’omosessualità: consideriamo le dichiarazione di Buttiglione, dopo che è stato mandato a casa dal parlamento europeo per aver affermato parole discriminatorie sui gay: ebbene questi, invece di difendersi magari spiegando perché non riteneva diffamatorie le sue affermazioni, ha al contrario affermato di essere vittima, in quanto cattolico, di una discriminazione. Lo stesso Beppe Severgnini, dopo che i suoi commenti sulla pubblicità gay dell’Ikea hanno suscitato polemiche, si è difeso dicendo che “è stato oggetto di intolleranza”. Non spiega quindi perché i suoi commenti non erano omofobici, ma afferma a sua volta di essere oggetto di intolleranza.

Il diverso viene considerato come un pericolo dell’ordine democratico liberale, e quindi la sua specificità viene assimilata a quella dell’intolleranza, insomma un pericolo per la libertà.

Se oggi abbiamo una classe politica di destra che ha ancora una certa credibilità per l’elettorato di riferimento, nonostante non segua neppure formalmente i valori tradizionali che proclama di affermare, è dovuto proprio in virtù di quel concetto di intolleranza poco fa espresso: ha ancora senso parlare del “family day”, e si riesce insomma ancora a dare un significato a questo termine solo in funzione dell’emergenza o del pericolo che si vuole scongiurare.

Non si dice “siamo contro alcuni diritti degli omosessuali” (accettando implicitamente che l’omosessualità è la discriminate); ma al contrario si fa passare l’idea che la tutela di coppie non eterosessuali sia un pericolo per le famiglie “tradizionali”. “In difesa della famiglia” significa in realtà “non accettare quei determinati diritti alle coppie omosessuali”. In questo senso bisogna demistificare il concetto di intolleranza: la diversità viene assimilata al pericolo e quindi all’intolleranza.

Per questo le affermazioni, di questi giorni, secondo cui Pisapia trasformerà Milano in una mecca gay o che De Magistris è a favore dei femminelli, non sono casuali ma anzi sintomatiche. Sintomatiche della nostra società perché questo linguaggio mostra l’impoverimento politico.

Oggi, a differenza del passato, non c’è bisogno utilizzare un pretesto vagamente razziale, non c’è insomma bisogno di fare appello ad una differenza sessista, culturale, economica, geografica, - di tipo vagamente ideologico - per giustificare la negazione di determinati diritti ad una minoranza.
Ma al contrario, i diritti vengono negati nel momento in cui si dice di affermarli.
Questo mutamento di discorsi è determinato dal fenomeno, avvenuto negli ultimi anni, di continua “privatizzazione” della sfera pubblica, e dal susseguente impoverimento spazio propriamente democratico.

Pertanto oggi non è necessario, come in passato, cambiare forma (di governo) per cambiare la sostanza (democratica), il vero pericolo è l’opposto: che si riesce a cambiare sostanza, lasciando formalmente la stessa forma democratica liberale. Si svuotano i diritti democratici e le libertà costituzionali dall’interno, lasciando invariata la forma!

Pensiamo alla recente diatriba sulla costruzione della moschea, discussa sempre nella campagna elettorale di Milano: il discorso, retorico, è del tipo “ok, bene noi occidentali democratici accettiamo la pluralità delle religioni e ti accettiamo in quanto musulmano; l’importante è che però non preghi in luoghi pubblici, non ti costruisci una moschea, non mangi kebab, accetti il crocifisso nelle scuole pubbliche, accetti la nostra cultura e valori cristiani e sei libero casa tua di fare quello che vuoi”.

L’essere musulmano viene negato nello spazio propriamente pubblico, facendo talvolta intendere che è una minaccia per noi buono cristiani occidentali. Lo spazio democratico non viene inteso come il luogo dove le diversità si incontrano (dialetticamente), ma come lo spazio dove ogni diversità è esclusa – e quindi o accettata solo in forma privata (puoi pregare il tuo dio a casa tua) oppure viene considerata come una pericolo proprio per l’ordine democratico liberale e tollerante che si vuole difendere: non ha forse agito in questo modo, la Moratti, quando ha risposto in un’intervista che lei è in linea con la Cei, e con la libertà di culto ma che è contraria alla la costruzione della moschea perché costituisce un pericolo alla sicurezza?

In questo senso si è antidemocratici: il diverso non viene assimilato o integrato, ma viene per così dire “de-sostanzializzato”. Accetto il diverso nella misura in cui lui si conforma ai miei valori, diventa come me e neghi quella specificità. Quella diversità, non viene però negata apertamente, e neppure istituzionalmente, ma viene al contrario esclusa dal soggetto: privatizzato o demonizzata.

Sicché, in sintesi: anche le varie differenze culturali o religiose e ideologiche non vengono intese, democraticamente, come parte dell’ordine universale democratico, ma al contrario quella diversità culturale viene sempre più marginalizzata a fattore privato o proclamata e etichettato come minaccia per lo stesso ordine democratico.

Appunto la moschea è un pericolo per sicurezza (e non l’affermazione del diritto di culto), i Pacs o Dico sono contro la famiglia tradizionale (e non per la tutela di coppie omosessuali). Lo stesso vale per gli immigrati, che sono chiaramente ben accetti secondo i discorsi dei nostri politici: “Tu immigrato regolare hai la libertà di venire in Italia facendo i lavori più umili e poco remunerativi, l’importante è che non devi avere il diritto di votare, non porti la tua cultura; cioè ti de-sostanzializzi in quanto immigrato: perché la tua diversità può essere una minaccia per il nostro ordine pluralista”.

Quindi, la retorica populista di demonizzazione, al posto di una dialettica sulle opinioni (e sui programmi elettorali) è sintomatica: perché mostra il passaggio da una società compiutamente democratica ad una invece dove si fonda sulla continua creazione di emergenze per auto legittimarsi, (come già accade, anche nelle altre democrazie occidentali, come negli Usa).

Questo sarà il nuovo futuro politico, la destra non negherà alcuni diritti direttamente; ma indirettamente, in nome della democrazia, facendo appello alla sicurezza (alla libertà) contro l’emergenza.

Già Spengler affermava che coloro che parlano in nome delle istituzioni sono proprio quelli che più di tutti fanno scempio delle stesse libertà democratiche: si pensi a al nostro presidente Berlusconi quando fa (addirittura!) appello al popolo per sottrarsi dall’azione giudiziaria della magistratura.
 
Ecco, è sbagliato parlare di nuovo fascismo, per comprendere questo sistema. Perché è diverso.

Usando un termine ormai scomparso, si può dire che il vero “potere” oggi è più ambiguo, ineffabile, ma maledettamente più cinico e efficace: la negazione dei diritti non verrà sancito con campagne che apertamente vogliono negare diritti; ma verranno sospesi proprio quando si proclamerà di affermarli. Nessuno chiuderà testate giornalistiche, non ci saranno neppure colpi di stato, la costituzione può rimanere la stessa: la forma è uguale, le parole rimarranno le stesse. Ma attenzione quello che cambia è il significato e il senso: sarà proprio nel nome della democrazia che negheranno i diritti. Nel nome della libertà ci rendono schiavi. Per questo, come già aveva profeticamente intuito Orwell, mai come oggi, è importante badare alle parole e anche al loro specifico significato.

Commenti all'articolo

  • Di yepbo (---.---.---.155) 8 giugno 2011 00:58

    Tutto condivisibile e valido per quanto riguarda il decadimento di politica e linguaggio.


    No per quanto riguarda una certa visione dell’ islam e dell’emigrato. 

    Provi ad andare a fare il cristiano in un paese islamico, provi a fare una chiesa cattolica in un paese islamico, provi a portare e vivere la sua cultura in un paese islamico, provi a sostenere il suo diritto al voto, sempre che esista il voto.
     
    Noi, al momento stiamo ancora troppo bene, tanto da permetterci simili sofismi, senza avere una vera conoscenza della controparte. Quando ci saremo scottati a sufficienza, avremo le idee molto più chiare.

    Esempio:- Si affitta un appartamento ad un immigrato X. Sorpresa, non paga le spese di condominio. Da loro non usa, non esistono. Fa parte della loro cultura. Lei che fa...accetta tale cultura? Oppure si rivolge ad un legale?

    Quando poi, il signore immigrato, offeso perchè ha dovuto pagare le suddette spese di condominio, decide bontà sua di andarsene, e si realizza che, in una stanza vi é stato allevato del pollame, che i pavimenti in legno non ci sono più perchè usati per fare fuoco nel centro della sala, che le pareti hanno cambiato colore, che l’appartamento é praticamente distrutto...ma che bastano poche decine di migliaia di euro per risistemarlo, lei che fa? Pensa alla loro cultura o pensa alla nostra e, che é doveroso che la comprendano MOLTO BENE prima di? 

    Creda, esempio estremo ma più frequente di quanto immagina. 

    Saluti
  • Di Vincenzo Fatigati (---.---.---.57) 8 giugno 2011 21:36
    Vincenzo Fatigati

    La ringrazio per la risposta, pero’ ci tengo a distinguere i diversi livelli.

    1) "provi andare in un paese islamico a fare il cristiano" . In primis bisogna smontare il falso mito di considerare l’islam come un blocco omogeneo e monolitico culturale, anzi l’islam è una religione che si vuole universale: cioè un musulmano turco proviene da una cultura molto diversa dal pakistano, dal magrebino, dall’iraniano, dal pakistano etc etc. Mettere tutti sullo stesso piano (a livello culturale è sbagliato). Una religione non è solo frutto di una cultura (posso essere arabo e non musulmano, o italiano, occidentale e musulmano)

    2) è vero che ci sono paesi come l’arabia saudita dove c’è intolleranza religiosa , chiaro. Ma appunto li non vige la democrazia, sappiamo che sono autoritari. Volevo qui soffermarmi sul falso concetto di tolleranza occidentale, è una falsa accettazione della cultura. Noi siamo ugualmente chiusi.
    Cioè: è chiaro che esiste una legge( delle regole) e se un musulmano, un cristiano un ebreo un milanese un torinese o un giapponese non paga le tasse commette un irregolarità; il punto è che questo non è determinato dalla cultura. bisogna distinguere la morale dalla legalità; è ovvio che è un reato non seguire la legge. 
    la differenza è che noi commettiamo le più grosse atrocità nel nome dei valori democratici , nella stessa usa per anni c’è stato un razzismo spaventoso (altrimenti perchè marthin Luther king doveva manifestare ?)
    Non volevo fare un paragone tra diverse culture, ma mostrare come questa stessa relazione è una falso problema.
     Quindi non c’entra la cultura se uno straniero mi rovinano la parete, chiaramente comemtte un reato .
    Secondo me tuttavia , guardando alla storia, mi sembra che i più grossi massacri e le più grosse tragedie siano nate proprio nel cuore occidentale, dietro la patina del buon padre di famiglia (l’olocausto non mi sembra sia avvenuto in qualche paese sperduto dell’africano)
    . I problemi citati quindi non dipendono da fattori culturali, cioè di tradizione locale, ma da fattori socio politici , migliorando questi migliori anche un determinato modo di comportamento.
    Allora in conclusione, l’integrazione è fondamzentale per tutti- pensiamo alla polemica contro le moschee: è assurdo!!!! cioè non è che negando la costruzione della moschea tu diminuisci il numero di fedeli , e d’altro canto la moschea è anche un modo migliore per controllare. Non trova?
    Ho più paura per noi "buoni" occidentali che per gli immigrati, gliel’assicuro.
    La ringrazio per l’attenzione.
    vincenzo

Lasciare un commento

Per commentare registrati al sito in alto a destra di questa pagina

Se non sei registrato puoi farlo qui


Sostieni la Fondazione AgoraVox







Palmares