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Pianosa e l’Asinara all’inizio degli anni ’90: cosa furono le "carceri speciali"

"Ricordando Pianosa e l’Asinara" è un testo contenuto nel libro "Fuga dall'Assassino dei Sogni" di Carmelo Musumeci (prefazione di Erri De Luca). Il testo contiene un'appendice dove sono state raccolte alcune testimonianze su quello che è successo nei "Carceri speciali" delle isole di Pianosa e dell'Asinara agli inizi degli anni '90. Questo testo di Marcello Dell'Anna fa parte dell'appendice. 

 

Pochi sanno cosa sono state davvero lo carceri speciali delle isole di Pianosa ed Asinara, durante gli anni ’90. Qualcuno di noi ricorda ancora i momenti infernali passati in quegli anni tra quelle spesse e vecchie mura, tra spazi tetri e isolamenti infernali, tra abusi e minacce.

In quegli anni le nostre istituzioni, mascherate di Giustizia e di Diritto, hanno, in realtà, preferito indossare il passamontagna della vendetta e lo stesso vestito che ogni criminale ama indossare, crogiolandosi al suo interno.

Tutto va raccontato, ricordato… per non essere dimenticato.Solo in questo modo può esserci un cambiamento di civiltà, degna di un Paese di diritto.

Per capire gli odierni regimi speciali bisogna ritornare indietro con la memoria ed arrivare agli inizi degli anni ’70 e vedere che, da lungo tempo, i detenuti subiscono violenze fisiche e psicologiche e che, da sempre, radio, televisioni, stampa, continuano a girarsi dall’altra parte: la gente non deve sapere.

La riforma del 1975 mosse i primi passi nel periodo in cui il terrorismo nel Paese sfociava in episodi criminali di grande potenzialità, di destabilizzazione nei confronti delle stesse istituzioni, in un clima che, per oltre un decennio, creò fortissimo allarme sociale in tutto il territorio nazionale. A seguito di alcuni episodi di evasione da istituti penitenziari, di rivolte nelle carceri e di pesanti atti di terrorismo, il legislatore introdusse le misure della c.d. sicurezza esterna ed interna alle carceri. Nacquero così, in determinati istituti penitenziari, i cosiddetti “reparti speciali”, di “massima sicurezza”, chiamati pure braccetti speciali o specialetti, al fine di ospitare quei detenuti ritenuti responsabili di determinati fatti delittuosi e, nel contempo, di isolarli ermeticamente, operando sugli stessi una graduale frantumazione della loro identità.

Accadde così che l’amministrazione penitenziaria, con un semplice atto di trasferimento, procedette al raggruppamento dei soggetti necessitanti di una più rigorosa custodia in particolari istituti di punizione, senza incorrere in alcun tipo di controllo giudiziario.

Tra queste carceri, accuratamente scelte negli anni ’70 e ’80, ricordiamo le isole dell’Asinara, Pianosa e Favignana, le famigerate carceri di Badu e Carros, Novara, Alessandria, Termini Imerese, ecc., in cui si venne a creare un sistema di controllo sulla sicurezza interna ed esterna del tutto svincolato dalla legge penitenziaria e spesso in contrasto con la stessa.

Il regime applicato per "Esigenze di sicurezza" (una norma di cui all’art.90 dell’ordinamento penitenziario, abrogata dopo il varo della legge Gozzini), si caratterizzava per un irrigidimento delle condizioni detentive, derivante da un totale isolamento comunicativo tra reclusi e dalla limitazione delle ore d’aria, della ricezione dei pacchi e della possibilità di acquistare generi alimentari, nonché dalla limitazione delle ore di colloquio e delle telefonate con i familiari.

Peraltro, malgrado i colloqui venissero effettuati in locali dotati di vetri divisori, che impedivano qualsiasi contatto umano, e provvisti di citofoni, i familiari venivano sottoposti ad umilianti perquisizioni che incidevano sulla sfera più intima della personalità. L’applicazione indiscriminata del controllo della corrispondenza, il divieto di accedere a mezzi di mass-media- nel senso che venne preclusa la possibilità di avere in cella TV, quotidiani e radioline- rappresentò in quegli anni una valida arma di governo nel sistema carcerario, legata anche al potere discrezionale che caratterizza l’amministrazione penitenziaria; il risultato fu la creazione di un circuito ideato solo con l’intento di spersonalizzare il reo, attraverso una forte pressione psicologica, al fine di indurlo a rompere con il passato e a collaborare con la giustizia.

Nei primi anni ’90, in un momento particolare della vita dello Stato, per stroncare sul nascere quello che fu definito l’attacco della mafia al cuore dello Stato, il regime del carcere duro, ossia l’art. 41 bis, rappresentò la risposta più dura e radicale da parte delle istituzioni. Il primo episodio che fece scattare il campanello d’allarme accadde il 23 maggio 1992 sull’autostrada Trapani- Palermo, vicino allo svincolo dell’uscita di Capaci, ove persero la vita, dilaniati da una bomba, il magistrato Giovanni Falcone e con lui la moglie e alcuni agenti di scorta. Il 19 luglio dello stesso anno, in via D’Amelio, nel centro della città di Palermo, perse la vita, insieme a cinque poliziotti, un altro magistrato, Paolo Borsellino. A seguito del verificarsi di tali eventi il Governo di allora, in piena emergenza, varò il decreto legge n.306/1992, che introduceva il secondo comma all’art. 41 bis.

Contestualmente, nel giro di qualche giorno, furono immediatamente riaperte le sezioni di massima sicurezza degli istituti di pena delle isole di Pianosa e Asinara, che fino a quel momento avevano avuto funzioni di colonie agricole, adatte più ad una popolazione detenuta di livello attenuato di sorveglianza. La riapertura delle isole rappresentava l’unico mezzo per isolare mafiosi che, a torto o a ragione, andavano emarginati dal mondo, in modo da spersonalizzarli, da renderli inoffensivi, da annientarli…

Era l’estate del 1992, ricordo che il giudice Paolo Borsellino era stato appena ammazzato e, nel giro di una notte, circa 70 di noi furono, come si dice in galera, impacchettati e trasferiti nell’isola di Pianosa. Altri finirono all’Asinara. Eravamo i primi 300 detenuti ai quali fu applicato il regime del carcere duro. Tutti arrivammo a destinazione con quello che avevano addosso, quando fummo presi di notte nelle nostre celle delle varie carceri italiane… chi in pigiama, chi in mutande… Gli agenti erano tutti in assetto antisommossa, caschi e manganelli, tute mimetiche ed anfibi… che ancora ricordo, come se fosse un tatuaggio, l’impronta che mi lasciò dietro la spalla un numero 43.

In quegli anni, a Pianosa, ci imponevano un’attività sportiva o fisica in modo indiscriminato e crudele; le forme di violenza fisica, quali pugni, calci, manganellamenti, erano abituali, normali procedure; non ci era consentito il cambio delle scarpe, quasi tutte- risulterà strano a chi non conosce l’attività fisica cui eravamo costretti per ore - con le suole usurate; ci era consentito l’uso delle docce una volta ogni quindici giorni, per tre o quattro minuti e chiudevano l’erogazione dell’acqua in termini improvvisi, lampo. A qualcuno fecero saltare le capsule dei denti, che non furono mai ritrovate. I pasti consistevano in un’altra occasione di violenza. Contavamo i pezzi di pasta corta messi nel piatto e non superavano mai la trentina; ci veniva data una patata, un litro d’acqua per l’intera giornata, e ci lasciavano senza carne e senza pesce, cosa invece prevista dai regolamenti. La nostra forma fisica era parecchio compromessa, tanto che parecchi di noi accusarono un progressivo calo di peso. Eravamo costretti al silenzio, sia durante le ore d’aria che nelle nostre celle, e se trasgredivamo queste regole non scritte, venivamo chiamati in barberia e pestati a sangue da otto, nove agenti, a volte incappucciati…

Nessuno dei giornali riportavano queste notizie, ma tutti sapevano e tutti tacevano. Ciò nonostante, queste vessazioni non sfuggirono all’attenzione di un Magistrato di Sorveglianza di Livorno, Dr. Rinaldo Merani che, dopo la sua visita all’isola, scrisse subito un rapporto.

Nella relazione del 05/09/1992, il dott. Merani scriveva: “…si è avuto notizia che due detenuti sono stati recati fuori sezione, l’uno all’interno di una carriola la muratore, certamente non in grado di camminare da solo, l’altro ammanettato e trascinato per le braccia: entrambi venivano portati verso il blocco centrale, dove non è dato sapere cosa sia successo poi. Si è avuta notizia dell’uso di manganelli all’interno delle sezioni, evidentemente non in relazioni a situazioni di pericolo reale che altrimenti ne sarebbe seguita adeguata e completa informazione a quest’ufficio da parte della Direzione (…). Altri episodi di iattanza e violenza, psichica più che fisica, nonché una serie di umiliazioni tanto inutili quanto ingiustificate, sono state inflitte a detenuti comuni impegnati nei lavori di ristrutturazione delle diramazioni (…) Il quadro si presenta pertanto non soltanto fosco e preoccupante, ma anche con caratteristiche delittuose. Non è certamente questo il modo di riaffermare la legalità e la primarietà dello Stato, di contrastare credibilmente la criminalità organizzata, di coltivare la buona amministrazione...”

Sono certo che la fatica per avere rievocato nella mia mente spiacevoli ricordi, frutto di esperienza reale vissuta sulla mia pelle, sia servita a costituire certamente un evento, approdo e sintesi di uno dei percorsi nelle cayenne delle istituzioni e della società italiana. In questo modo ciascuno di voi lettori potrà meglio intendere la continuità di quelle inciviltà usate negli anni ’70, l’intimità profonda e attualissima della comunità del 41 bis reale con i luoghi che si ritengono oscurati, con le deportazioni di veri e presunti criminali, condannati comunque alla morte viva.

Nel 1993 un rapporto di Amnesty International raccolse le testimonianze denunciando le brutalità subite dai reclusi della sezione Agrippa del carcere di Pianosa.

Le carceri di massima sicurezza dell’Asinara e di Pianosa sono state chiuse nel 1998. Il regime speciale non arriva oggi ai limiti della violenza fisica diffusa e sistematica, come è accaduto nei primi anni ’90, ma a quella psichica certamente, tanto che ancora oggi rimangono condizioni di detenzione e finalità di pena intollerabili in un paese civile. Il Comitato europeo per la prevenzione della tortura (C.P.T.) ha avuto modo, sin dal 1995, di interessarsi alla situazione carceraria italiana ed, in particolar modo, al regime del 41 bis. Ad avviso del C.P.T. questa particolare fattispecie di regime detentivo è risultato il più duro tra tutti quelli presi in considerazione durante la visita ispettiva.

La delegazione intravedeva nelle restrizioni gli estremi per definire i trattamenti come "inumani e degradanti". I detenuti erano privati di tutti i programmi di attività e si trovavano, essenzialmente, tagliati fuori dal mondo esterno. La durata prolungata delle restrizioni provocava effetti dannosi che si traducevano in alterazioni delle facoltà sociali e mentali, spesso irreversibili. Infatti, il carcere duro, e vi parlo per esperienza diretta, comporta un isolamento sociale, una limitazione fisica e motoria, nonché la riduzione delle stimolazioni cerebrali conseguenti allo stato di privazioni imposto, determinando alterazioni dello stato psichico del detenuto, con conseguente deterioramento intellettivo e percettivo e possibilità di allucinazioni.

Dal punto di vista della Convenzione dei Diritti dell’Uomo, in Italia, subito dopo il 1992, la violazione dell’art 3 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo è stata invocata, dinanzi alla Corte EDU, in due occasioni e da due persone che erano detenute a Pianosa, al carcere duro. Nei due episodi, la Corte di Strasburgo ebbe a constatare la violazione procedurale dell’art.3 in ragione del ritardo nelle indagini e della negligenza nell’identificazione degli agenti penitenziari responsabili.

Riguardo alle sentenze emesse dalla Corte Europea, in ordine alla constatata violazione dell’art.3 della Convenzione, non possiamo omettere di riportare e raccontare la storia di due nostri compagni che, negli anni 90, furono ristretti nelle isole del diavolo.

Nel primo episodio, il Signor Labita, detenuto nell’isola di Pianosa a partire dal 20 luglio 1992 e sottoposto al regime del 41 bis, lamentò alla Corte EDU di avere subito maltrattamenti, che venivano sistematicamente inflitti ai detenuti, intimidazioni, vessazioni ed altre forme di tortura, sia fisica che psicologica da parte degli agenti di custodia, di essere stato sovente schiaffeggiato e percosso, alle dita, alle ginocchia, ai testicoli, di avere subito ispezioni corporali durante la doccia e di essere rimasto ammanettato durante le visite mediche. Le sue proteste risultarono inutili e controproducenti. Per essersi lamentato di avere avuto strappati i vestiti dagli agenti, sarebbe stato minacciato, insultato e percosso da uno di essi. Inoltre gli vennero danneggiati la protesi dentaria e gli occhiali, senza avere poi la possibilità di ripararli. I disturbi psichici manifestatisi in seguito alla sua detenzione a Pianosa vennero attestati in un certificato medico del 20 aprile 1996.

Il Governo, chiamato a rispondere sui fatti, ammise che "tali atti riprovevoli erano stati commessi da taluni agenti di custodia di loro iniziativa e che non si potesse ritenere che tali leggerezze si inquadrassero in una politica generale. Questi comportamenti censurabili, non previsti e non richiesti, ma, al contrario, possibili di sanzioni penali, non possono essere imputati alla responsabilità dello Stato che, al contrario, ha reagito, tramite l’autorità giudiziaria, per stabilire lo Stato di diritto, turbato da tali episodi". Successivamente il Governo affermò che l’esito negativo dell’inchiesta avviata per accertare l’identità degli agenti accusati di maltrattamento non poteva fondare la violazione dell’art. 3 CEDU, dal momento che lo Stato aveva operato con diligenza e, semmai, l’impossibilità di giungere ad una conclusione soddisfacente doveva essere imputata al ricorrente, che aveva omesso di richiedere le visite mediche immediatamente dopo aver subito i maltrattamenti in questione e non era stato in grado di riconoscere gli agenti di custodia nelle foto (esibite in fotocopia) che gli erano state mostrate e che, perciò, ogni ulteriore attività investigativa sarebbe risultata inutile.

Il ricorrente fece riferimento al rapporto del Magistrato di Sorveglianza di Livorno, da cui si evinceva che i metodi adottati a Pianosa erano uno strumento volto ad intimidire i detenuti e ad incentivare la collaborazione; altresì affermò che l’archiviazione della sua denuncia penale, perché erano rimasti ignoti gli autori del reato, era avvenuta a causa della superficialità delle indagini svolte, e questo confermerebbe che all’epoca i fatti di Pianosa erano noti e tollerati dal Governo. La Corte prese anche cognizione del rapporto del presidente del Tribunale di Sorveglianza, peraltro prodotto dal Governo e, pur non sottovalutando la questione, si limitò a prendere atto che, in effetti, all’epoca dei fatti, nel carcere di Pianosa persisteva una situazione allarmante seppur di carattere generale (Sentenza Labita c. Italia, 6 ottobre 2000, n 26772/94).

Nel secondo caso preso in esame dalla Corte di Strasburgo, il Signor Indelicato, detenuto presso il carcere di Pianosa, denunciò di avere subito percosse e insulti da parte degli agenti di custodia. I fatti denunciati dalla moglie del signor Indelicato si verificarono nello stesso periodo del caso Labita (estate 1991). In quella circostanza il Governo rivelò che, a seguito di indagini amministrative, il clima di forte tensione che regnava tra gli agenti di custodia e gli abitanti (rectius detenuti) dell’isola di Pianosa era dovuto all’arrivo di numerosi detenuti particolarmente pericolosi e che, pertanto, questo comportava una maggiore intransigenza e una disciplina più rigorosa da parte degli agenti di custodia. A seguito della denuncia presentata dalla moglie del ricorrente nell’agosto del 1992, nel febbraio 1999 il Pretore di Livorno condannò due agenti, avendo ritenuto provato che il ricorrente avesse subito maltrattamenti dai predetti. La Corte di Appello di Firenze, tuttavia, ritenendo che i fatti dovessero essere riqualificati come violenza privata (ex.art.610 c.p.), anziché come abuso di autorità contro arrestati e detenuti, successivamente annullò la sentenza restituendo gli atti alla Procura della Repubblica di Livorno (Sentenza Indelicato c. Italia,18 ottobre 2001 ricorso n.3143/96).

A volte pensiamo di vivere in città civili e tranquille. In realtà, ogni città nasconde un lato oscuro, che oggi sembra dilatarsi sempre di più ed espandersi perché coperto dall’omissione, dal compromesso, dall’amnesia, dalla paura di guardare. Quel lato oscuro continuerà ad espandersi finché non ci sarà luce ad illuminarlo.

È arrivato il momento di accendere questa luce.

 

Marcello Dell’Anna, ergastolano ostativo

Penitenziario di Badu e Carros (Nuoro),ottobre 2014

 

 

Ricordando Pianosa e l’AsinaraNota degli autori

Questo è un libro che corre su vai piani. Uno di essi (non il solo) è quello della riemersione di quando avveniva nel supercarcere dell’Asinara negli anni ’90. Quando vennero riaperte le sezioni di massima sicurezza degli istituti di pena delle isole di Pianosa e Asinara, quelle carceri divennero a tutti gli effetti “carceri speciali”, luoghi dove per anni il diritto e la Costituzione vennero sospesi.

Abbiamo voluto, in conclusione del libro, inserire in una appendice alcune testimonianze di persone detenute, nel corso degli anni ’90, in quelle carceri. La premessa storico-introduttiva a queste testimonianze è di Marcello dell’Anna, che in quegli anni venne detenuto a Pianosa.

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