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Oltre la monogamia

Oggi diverse persone esplorano orientamenti relazionali lontani dalla coppia monogama, ad esempio le cosiddette “non monogamie etiche” e il poliamore. La questione offre spunti di dibattito sul legame tra natura e cultura, sulla storia evolutiva dell’essere umano e sull’influenza che la religione può avere sulle relazioni. Giovanni Gaetani affronta il tema sul numero 3/22 di Nessun Dogma.

La famiglia “naturale”: un uomo, una donna, entrambi vergini fino al matrimonio, che scelgono di unirsi a vita in un vincolo sacro e monogamo in cui il sesso sia volto alla sola riproduzione – non viene anche a voi un filo di claustrofobia a leggere questa descrizione?

Ironia a parte, come ogni altro ideale “naturale”, anche questo di naturale ha ben poco. Per un motivo prima di tutto evolutivo – alle origini della nostra specie eravamo infatti tutto tranne che monogami – e antropologico – la monogamia non è (e non è mai stata) la norma in tante culture in giro per il mondo. Per non parlare poi del fatto che, nel mondo animale, la monogamia è molto rara – delle 5000 specie di mammiferi come noi, solo il 3/5% è monogamo.

Ad ogni modo, inutile prendere sul serio quella che è, in fondo, soltanto l’ennesima fallacia naturalistica. Perché, ragionando per assurdo, anche se fossimo stati tutti uniformemente monogami sin dal principio, a noi Homo sapiens del ventunesimo secolo dovrebbe importare poco, visto che storicamente siamo diventati ciò che siamo proprio imparando a gestire razionalmente la nostra natura – e non obbedendo rigidamente a essa, con buona pace di chi invece vorrebbe tornare ad anacronistici eden naturali, qualsiasi essi siano.

L’obiettivo di questo articolo sarà allora mostrare il nesso che intercorre tra evoluzione, monogamia e religione, al fine di supportare la seguente tesi: «la monogamia non è che una delle possibili risposte evolutive e culturali all’imperativo della riproduzione in un determinato contesto storico-ecologico, mutato il quale si indebolisce la necessità della monogamia tout court, aprendo così le porte a orientamenti relazionali diversi – le cosiddette “non-monogamie etiche”, incluso ad esempio il poliamore».

Partiamo allora da un dato di fatto: la monogamia, per Homo sapiens, è qualcosa di recente. Nei circa 300.000 anni di vita di Homo sapiens, essa si è originata all’incirca 20.000 anni fa – come dimostrato da un recente studio sulle catene del cromosoma Y – per poi affermarsi su vasta scala a partire da 13.000 anni fa, a seguito della rivoluzione agricola e dei cambiamenti economico-sociali a essa legati.

Una “invenzione” recente, dunque – e la comunità scientifica è unanime su questo dato: quando Homo sapiens viveva ancora in piccole bande nomadi di cacciatori-raccoglitori (tra i cinque e gli 80 individui al massimo), l’idea stessa di coppia monogama semplicemente non esisteva. All’interno di una banda di cacciatori-raccoglitori la condivisione di tutte le risorse e attività (compresi il cibo, la prole e il sesso) era infatti non solo normale, ma anche necessaria per la sopravvivenza di tutti. La norma sociale era il cosiddetto fierce egalitarianism, ovvero un “egualitarismo feroce” in cui ogni membro della banda esercitava una costante peer-pressure sugli altri membri per assicurarsi che nessuno prendesse il sopravvento. Da un punto di vista genetico-evolutivo, poi, la monogamia non era necessaria perché ogni membro della banda era legato agli altri da stretti legami di sangue, e ogni neonato poteva dunque venir considerato come “figlio genetico comune” della banda. Intendiamoci: non c’era nulla di nobile in tutto ciò; lontani anni luce dalla retorica del buon selvaggio, questa forma di egualitarismo primitivo era semplicemente l’unico modo che un gruppo ristretto di individui aveva per sopravvivere in un ambiente ostile.

Cosa è successo allora a partire da 13.000 anni fa? Homo sapiens è diventato sedentario e agricoltore, cominciando a vivere in gruppi sempre più numerosi, fertili e complessi: innanzitutto le tribù – centinaia di individui suddivisi in clan che si spartiscono la terra in maniera però ancora egualitaria; e successivamente le cosiddette chefferies – migliaia (se non decine di migliaia) di individui, con una più spiccata conflittualità e gerarchia sociale, visto lo scomparire dei legami di sangue tra i suoi membri e l’inizio della lotta per l’accumulazione delle risorse.

È qui che la monogamia ha per noi lentamente inizio – e con essa, a ben vedere, anche le prime dinamiche patriarcali e capitaliste: i maschi di Homo sapiens, sempre più numerosi e geneticamente estranei l’uno all’altro, entrano in una competizione serrata non solo per l’appropriazione della terra e l’accumulazione delle risorse, ma anche per la riproduzione; in questa “lotta incrociata per l’inseminazione”, la paternità diventa infine un problema reale; i maschi di Homo sapiens cominciano allora a “sorvegliare” le proprie donne, proteggendole dagli sguardi indiscreti degli altri uomini, al fine di massimizzare le probabilità di essere loro i padri biologici dei propri figli. Questo perché, sempre da un punto di vista genetico-evolutivo, allevare i figli biologici di qualcun altro è semplicemente fallimentare – un vero e proprio spreco di risorse, come sanno bene (inconsciamente) i maschi di leone ad esempio, che nel prendere possesso di un nuovo branco uccidono tutti i cuccioli presenti…

Diverso discorso per le femmine di Homo sapiens, le quali per ovvie ragioni non devono preoccuparsi di essere le madri biologiche dei propri figli. Per loro il problema è diventato piuttosto un altro: assicurarsi il supporto maschile durante il dispendioso allevamento della prole, adesso che non è più la banda a farsene carico in maniera collettiva. Homo sapiens si caratterizza notoriamente per una spiccata neotenia – è, cioè, una specie in cui i cuccioli diventano adulti e indipendenti soltanto in tarda età. Ciò richiede un prolungato investimento di tempo e risorse da parte dei genitori, senza il quale la prole è destinata a non sopravvivere. La madre da sola non può farsi carico di tutto ciò, specialmente in passato, quando la sua vulnerabilità durante gravidanza, gestazione e allattamento era estremamente accentuata rispetto a oggi. Di qui la necessità di selezionare i propri partner maschili non solo per la propria salute e forza fisica, ma anche per la capacità di assicurare il loro sostegno (emozionale, logistico ed economico) durante l’allevamento della prole – per la loro fedeltà insomma.

È in questo contesto competitivo che emerge e si fa strada l’istinto della gelosia, ovvero l’impulso a soffrire per la promiscuità (reale o potenziale) del proprio partner, e la conseguente volontà di inibire quella promiscuità con strategie di possesso e sorveglianza. Di pari passo emerge anche il sentimento dell’amore, ovvero l’impulso a innamorarsi perdutamente di una persona e restare a essa legata per il tempo necessario ad allevare la prole, scaduto il quale l’amore lentamente svanisce.

La cosa più interessante è che maschi e femmine sono sì entrambi gelosi, ma per diverse motivazioni inconsce: il maschio di Homo sapiens, come abbiamo già detto, sarebbe inconsciamente geloso della propria donna per paura che la promiscuità della partner infici la sua paternità biologica; la femmina di Homo sapiens sarebbe invece gelosa del partner per paura che quella promiscuità porti l’uomo a investire attenzione e risorse altrove, lontano da lei e dalla sua prole.

Tutto ciò sembra assurdo e spietatamente sessista – Christopher Ryan e Cacilda Jethá criticano questa narrazione nel loro In principio era il sesso – ma come ulteriore controprova di tutto ciò viene spesso riportato uno studio del 2006 che dimostra come il cervello di uomini e donne risponda in maniera differenziata a scenari di gelosia diversi: gli uomini sono più reattivi all’infedeltà sessuale, attivando maggiormente amigdala e ipotalamo, zone del cervello legate alla violenza e alla sessualità; le donne invece sono più reattive all’infedeltà emozionale, attivando maggiormente il solco temporale posteriore – sarebbe interessante condurre lo stesso studio su popolazioni non-monogame, per verificare la loro risposta agli stessi scenari…

In questo meraviglioso puzzle in cui tutto sembra incastrarsi alla perfezione c’è però qualcosa che non torna: perché, ovunque la monogamia si sia affermata come norma, la tendenza alla promiscuità persiste nonostante tutto? Perché sempre meno coppie riescono a vivere “felici e contente” – “fino a che morte non le separi”? Perché il tradimento è qualcosa di sempre più tollerato nelle società monogame – la cosiddetta “fauxnogamy” – e il numero dei divorzi è in costante aumento?

Il perché è presto detto: 13.000 anni sono un battito di ciglia all’interno dell’evoluzione umana, e non si cancellano da un giorno all’altro i geni plasmati in centinaia di migliaia di anni in cui Homo sapiens ha praticato una promiscuità libera e senza peccato.

È in questo caos di istinti e necessità contrastanti che interviene la cultura – inclusa, inutile dirlo, la religione e il suo dito indice moralizzatore. A diverse latitudini, infatti, diversi gruppi politico-filosofico-religiosi hanno santificato come “famiglia naturale” orientamenti relazionali molto diversi fra loro, sancendo come immorale (o addirittura illegale) tutto ciò che non aderisse a quella norma.

In un contesto cattolico, ad esempio, “naturale” è la famiglia monogama descritta in apertura, mentre in un contesto musulmano o mormone fondamentalista “naturale” è la famiglia poliginica, in cui un uomo sposa più donne, a patto che abbia la facoltà economica per “permettersele”. In altre culture, poi, “naturale” è la famiglia poliandrica, in cui una donna sposa più uomini, come nel caso della classe sociale tre-ba del Tibet, in cui una donna ha due o tre mariti, fratelli l’uno dell’altro. L’etnografia è sterminata a tal riguardo e sarebbe impossibile elencare tutte le variopinte “famiglie naturali” in giro per il mondo…

Ad ogni modo, che cosa possiamo trarre da tutto ciò? Dobbiamo forse rimpiangere – come anacronistici Rousseau – i tempi andati della promiscuità egualitaria di Homo sapiens? O forse ostinarci ancora un po’ nell’idealizzare la monogamia, considerandola come l’unica vera scelta possibile in campo amoroso, chiudendo gli occhi di fronte ai tantissimi segni della sua inadeguatezza alla complessità del mondo contemporaneo? Nulla di tutto ciò. Lungi dal voler esaltare la promiscuità o condannare la monogamia, vorrei porre l’attenzione sull’inedita condizione di libertà nella quale ci troviamo a vivere oggi: liberi dalla religione, possiamo liberarci anche dalla sua inerzia in campo morale e sessuale, esplorando orientamenti relazionali alternativi e trovando quello che fa al caso nostro, ognuno per sé.

«To each his own», dicono gli inglesi. A tal riguardo, sempre più persone in tutto il mondo scelgono di vivere relazioni eticamente non-monogame, in cui ognuno dei partner coinvolti acconsenta di mutuo accordo a intrattenere relazioni amorose e/o sessuali con altre persone. Nel far ciò, queste persone sfidano (più o meno apertamente) un mostro a tre teste chiamato “mono-normatività”, ovvero quel sistema ideologico-valoriale secondo il quale l’unico vero amore è quello monogamo, fondato sull’esclusività emozionale e sessuale – e tutto il resto è confusione adolescenziale, paura di impegnarsi, incapacità di controllare la propria libido e quant’altro.

Al crocevia tra le pressioni della nostra natura e le imposizioni della nostra cultura, ognuno dovrebbe essere libero di esprimere il proprio orientamento relazionale liberamente e senza paura di discriminazioni. Sappiamo bene quanto sessiste, omofobe e sessuofobe certe religioni possano essere – compreso il cattolicesimo di casa nostra – e come Uaar continuiamo la nostra battaglia laica in favore della libertà e dell’autodeterminazione individuale. La speranza che anima questo articolo è che sempre più persone all’interno del mondo ateo-umanista prendano consapevolezza di un’altra fobia di molte religioni in giro per il mondo: quella nei confronti delle persone non-monogame, etichettate come perverse, promiscue, peccaminose, adultere e così via.

In un mondo in cui l’imperativo natalista sta dimostrando i suoi limiti oggettivi, in cui il tabù attorno alla sessualità sta lentamente crollando e in cui sempre più persone si riconoscono nei valori liberali della laicità, possiamo (e dobbiamo) sfidare il monolite indiscusso della monogamia, e far spazio all’universo in espansione delle non-monogamie etiche. Una discussione scientifica, aperta e inclusiva a tal riguardo farebbe il bene di tutti, incluso quello delle persone monogame.

Liberi dal monoteismo cattolico, insomma, facciamo allora l’esperimento – e proviamo a liberarci anche della sua mono-normatività.

Giovanni Gaetani

 

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