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Nel giorno della consegna del Nobel all’UE, un omaggio a chi lo meritò nell’anno che ha cambiato la storia

Oggi ricorre il ventitreesimo anno dalla consegna del Nobel per la pace al Dalai Lama, un riconoscimento che rese omaggio alla campagna non violenta per i diritti umani che Tenzin Gyatso conduceva da quasi quarant'anni. Un raffronto con il Nobel del 2012 conferito all'Ue.

Quel 10 dicembre del 1989 il Comitato norvegese scrisse che la ragione principale della consegna del Nobel alla massima autorità religiosa del buddhismo tibetano, dal 1959 costretto all'esilio in India a causa della repressione cinese, si dovesse ricercare nel "modo coerente con cui Tenzin Gyatso si è sempre opposto all'uso della violenza" nello svolgimento delle sue attività spirituali.

La Commissione parlò in quell'occasione anche del suo importante contributo verso ''l'individuazione di soluzioni pacifiche basate sulla tolleranza e il rispetto reciproco, finalizzate alla difesa del patrimonio storico e culturale del suo popolo.''

Il Dalai Lama, allora cinquantaquattrenne, si trovava in California per partecipare ad una conferenza organizzata sul benessere psicologico e sulla spiritualità. Alla notizia dell'assegnazione del Nobel, le sue parole furono decisamente eloquenti: "Apprezzo molto questo tipo di riconoscimento. Ho sempre creduto nell'amore, nella compassione e nutro un profondo senso universale di rispetto. Ogni essere umano possiede questo potenziale. Il mio caso non è eccezionale. Sono un semplice monaco buddista. Né più né meno''.

Il premio arrivava al termine di un anno decisamente turbolento. Nel giugno di quel 1989 due avvenimenti terribili e liberticidi avevano avuto luogo in Cina. Da una parte la violenta repressione del movimento democratico cinese, dall'altra il soffocamento nel sangue delle manifestazioni per l'indipendenza del Tibet, seguite dall'imposizione della legge marziale nella capitale Lhasa. Egil Aarvik, presidente del Comitato Nobel norvegese, rimarcò in ogni caso che la consegna del Premio non fosse dovuta a ragioni politiche, anche se i tragici eventi in Asia contribuirono alla decisione di onorare il Dalai Lama con un segnale di incoraggiamento per il movimento democratico.

Wang Guisheng, consigliere presso l'ambasciata cinese, riportò tramite l'agenzia di stampa norvegese il dissenso del governo di Pechino, interpretando il conferimento del Nobel al Dalai Lama come "un'interferenza negli affari interni della Cina in grado di ferire i sentimenti del popolo cinese", definendo il Dalai Lama non solo un leader religioso, "ma anche una figura politica che sta cercando di dividere la Cina, minando all'unità nazionale.''

Tra i premi inseriti nel testamento di Alfred Nobel, l'industriale svedese che inventò la teoria della dinamite, il Premio per la Pace è l'unico che viene assegnato ad Oslo e non a Stoccolma. La commissione che decide sul conferimento del Premio per la Pace è rinomatamente composta da cinque accademici e politici norvegesi. Gli altri Nobel vengono di norma assegnati da gruppi di ricerca svedesi.

L'assegnazione del Nobel al leader del buddhismo tibetano, che a soli cinque anni fu portato a Lhasa per essere eletto come quattordicesimo Dalai Lama, rifletteva la tendenza di considerare la pace mondiale come una questione sempre più legata alla lotta per i diritti umani. Un concetto espresso dallo stesso presidente del comitato per il Nobel, Egil Aarvik.

Già nel 1983, il premio andò a Lech Walesa, il leader del movimento Solidarnosc in Polonia, mentre l'anno successivo fu consegnato all'arcivescovo sudafricano Desmond M. Tutu.

Il premio consiste nella consegna di un diploma e di una medaglia d'oro, in aggiunta all'attribuzione di tre milioni di corone svedesi, pari all'attuale valore di circa 347.591 euro.

Il comitato di selezione proclamò l'assegnazione del Nobel osservando come il Dalai Lama fosse stato capace di sviluppare la sua filosofia di pace con un grande sentimento di rispetto per tutti gli esseri viventi, basandosi su un concetto di responsabilità universale che abbraccia tutta l'umanità e la natura. Una dichiariazione che, senza menzionare il Tibet, ha elogiato Tenzin Gyatso come leader spirituale e sostenitore della pace, sottolineando come il suo monastero ai piedi dell'Himalaya rivestisse un'accezione spirituale e non politica.

Una vita interamente dedicata alla compassione e alla difesa dei diritti del popolo tibetano. Dopo aver conquistato il potere, nel 1950 i comunisti cinesi entrarono nelle montagne del Tibet rovesciando la teocrazia buddhista. Da quel momento, il Dalai Lama ha sempre cercato di preservare e difendere il patrimonio religioso e culturale del Tibet, oltre alla struttura sociale e religiosa delle comunità buddhiste.

Le violazioni dei diritti umani da parte dei cinesi si sono nel tempo palesate sempre più brutali, soprattutto nei confronti dei monaci e dei loro monasteri. Tenzin Gyatso ha tentato inizialmente di svolgere un ruolo di mediatore. Ma in seguito ad una grande sollevazione scatenata a Lhasa dal Movimento di liberazione tibetano, dove vennero massacrati miglia di uomini, donne e bambini da parte dell'esercito popolare di liberazione cinese, il Dalai Lama fu costretto all'esilio in India, dove ottenne l'asilo politico insieme ad altri 100mila tibetani. Si stabilì nella città settentrionale di Dharamsala, costituendo il governo tibetano in esilio sulle catene dell'Himalaya.

Alla vigilia dell'ufficializzazione della consegna, alcuni esperti della rassegna dei Nobel credevano che il Premio sarebbe stato assegnato ad uno tra i due famosi dissidenti cecoslovacchi - il drammaturgo Vaclav Havel e l'ex ministro degli Esteri Jiri Hajek, ex ministro degli Esteri. Altri candidati in lista erano Nelson Mandela e l'ex presidente Ronald Reagan, nonché il Presidente dell'Unione Sovietica Mikhail S. Gorbaciov, nominati per l'effettiva conclusione del Trattato di non proliferazione nucleare che contribuì a migliorare i rapporti tra i paesi occidentali e le realtà del blocco sovietico.

Nel giorno in cui sarà l'Unione Europea a ricevere il Nobel per la pace è impossibile fare raffronti con il passato. A partire dal fatto che sui i canoni e sulle disposizioni seguite dai membri del comitato per l'assegnazione del premio si apre una vasta gamma di esegesi differenti. È difficile stabilire quali debbano essere i parametri e i criteri di giudizio attraverso i quali un soggetto meriti l'attribuzione di un titolo onorifico di tale portata. Se poi si considera il fatto che il soggetto in questione rappresenta un'organizzazione sovranazionale composta da attori istituzionali eterogenei, la spettabilità del premio risulta essere molto ambigua. La motivazione addotta dal comitato norvegese sembra peraltro riprendere un formato standard: "Il più importante risultato dell'Ue è l'impegno per la pace, la riconciliazione e per la democrazia e i diritti umani. Il ruolo di stabilità giocato dall'Unione ha aiutato a trasformare la gran parte d'Europa da un continente di guerra a un continente di pace". A ciò va osservato che l’assegnazione del premio arriva in un periodo di crisi pesantissima dei debiti sovrani, che sta mettendo in ginocchio diversi paesi membri e che sta risvegliando voglie di indipendenza in regioni importanti come la Catalogna. Senza dimenticare le manifestazioni, spesso sfociate in scontri da piazza, che infervorano in maniera costante la frustazione di tanti cittadini europei, soprattutto negli Stati del mediterraneo: Grecia e Spagna in primis, ma la propagazione è assolutamente endemica. Se poi parliamo di diritti umani, è ormai assodato che la "morbida diplomazia" improntata sul compromesso ha sempre rappresentato un punto fermo nella panoramica dei rapporti internazionali intessuti dall'Unione Europea.

Ad esempio, recentemente Lady Ashton, “Alto Rappresentante per gli Affari esteri e la politica di sicurezza dell’UE”, ha nominato un “rappresentante speciale” per i diritti umani, il greco Lambrinidis. Ma al di là delle iniziali aspettative, a tutt'oggi sembrano ben pochi i passi fatti per contrastare le stragi quotidiane che avvengono in Siria, salvo la condanna ufficiale delle violenze. Come ironicamente sottolinea Enrico Galoppini sulla nazionalità del Rappresentante speciale, che se dovesse occuparsi di quel che accade a casa sua, in materia di “diritti umani” (quelli veri: lavoro, casa, sanità, scuola), probabilmente non gli basterebbero le ventiquattr’ore d’ogni giorno, gli elementi dell'euro-burocrazia emergono in maniera alquanto paradossale. Limitiamoci a considerare questo riconoscimento come un segnale di incoraggiamento in tempi difficili, sperando che a Bruxelles si rimbocchino le maniche per recuperare una sorta di altruismo "comunitario".

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