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Motus, Too late! Antigone #2

I Motus portano in giro per i teatri italiani la loro versione dell’ Antigone, un must della tragedia classica ripercorsa in tre contest fondamentali. Dalle strade di periferia al palco di un teatro, un impasto per un nuovo contenitore del contemporaneo.

Le luci sono spente, la platea, i palchi, la cornice teatrale, tutto diventa un involucro vuoto con costoni scrostati, un relitto. La quarta parete viene abbattuta e l’organismo smette di alimentarsi secondo il continuum tra due mondi: chi agisce e chi guarda.

I Motus portano in scena in giro per l’Italia il secondo dei tre contest dell’Antigone, Too Late, riletto da Brecht, rindossato dal Living Theatre, rimasticato dalla contemporaneità sfaccettata della storia, filtrata e impastata tra periferia e informazione. Too late, le parole gridate dal coro dell’Antigone del Living riprese qui, lapidarie nel titolo ad indicare ancora una volta il ritardo dell’uomo nel comprendere, capire, abbandonare la strada della sopraffazione. La redenzione giunge quando ormai tutto è deciso.  

La classica struttura teatrale diviene roba vecchia inadatta a comunicare quel tutt’uno creativo che è alla base del mondo dei Motus. Il pubblico, ovattato da una nebbia che avvolge ed unifica, viene perciò collocato sul palco, accomodato su cuscini e sedie, illuminato dalle stesse luci che carezzano gli attori, sensorialmente coinvolto in tutto e per tutto dalla scena.

I due personaggi seduti l’uno di fronte all’altro danno il via all’aspro dialogo tra Creonte (Vladimir Aleksic), re di Tebe, e il figlio Emione (Silvia Calderoni che impersonerà anche l’eroina della tragedia), promesso sposo di Antigone, la fanciulla condannata a morte per aver coperto il corpo senza vita del fratello, considerato traditore della patria e perciò destinato a giacere senza degna sepoltura. Ben presto il dialogo abbandona il testo teatrale e diviene un contest di lotta animalesca tra reggente e sottomesso, tra integralismo e umanità,tra un potere che non dissocia l’atto dall’attore e chi contestualizza e comprende, tra padrone e cane.

Si abbaiano contro, calpestano la scena come due bestie feroci che si contendono ragione e dominio.

La sensazione è quella di trovarsi in un territorio ibrido dove il testo teatrale è pre-testo nel doppio significato dell’espressione: l’Antigone come dramma a cui attingere e che sta prima di una riscrittura; e scusa, occasione di spunto per dare voce e spazio a qualcosa che muore, ad una coscienza appannata.

Si entra e si esce continuamente dal testo classico ma questo uscire non è un sottrarsi alla narrazione bensì un riflettere sulla resistenza dell’Antigone d’oggi. Uno spazio di 50 minuti ceduto all’ostinazione, a quella necessità di dichiarare di aver compiuto un’azione e di non negare l’azione stessa assumendo perciò il fardello delle responsabilità che ne seguono.

Un’irriducibilità oggi spesso persa, drogata dal luccichio di mille vane attrazioni.

Antigone si denuda, abbandona vesti e riserve, resiste e oppone fisicamente la propria identità, diviene emblema e incarnazione di dissenso mai fine a se stesso, mai retorico in senso sofistico, mai inutilmente polemico.

Il corpo del fratello non è più un’effige classica riesumata dalla narrazione ma diviene carne viva, assume il volto di tutti coloro che nelle cronache dei nostri giorni non solo sono stati depredati della vita ma anche della dignità riservata alla vita. Il rimando ad Alexis Grigoropoulos, il ragazzo greco di 15 anni barbaramente freddato da un poliziotto, non è poi così  fuori luogo e ne è dimostrazione il fatto che uno degli ultimi lavori dei Motus si intitola proprio Alexis, una tragedia greca.

Accanto alla forte anima di denuncia che vibra con violenza per tutto lo spettacolo non manca però una scelta estetica sofisticata e ancorata alla sostanza del testo.

La scenografia è ridotta all’osso, la musica è diegetica (viene mandata in loop Mr Lonely di Bobby Vinton) ma con una funzione quasi antinarrativa e straniante che ricorda il fare kubrickiano, la performance artistica molte volte va a sostituire il teatro di parola e infine approda quasi alla body art nel momento in cui Antigone scrive sul proprio corpo. È l’urlo interiore, la resistenza, l’opposizione, l’assunzione di “colpa” che emerge a fior di pelle in segni indelebili di pennarello che ripercorrono slogan sessantottini.   

Non esiste più alcun confine tanto meno quello tra persona e personaggio. Gli attori interpretano e sono, a tratti sembra di assistere alle prove dello spettacolo e non allo spettacolo stesso. Si entra e si esce eppure la percezione di realtà rimane sempre alta.

Creonte muore. Non è quel che succede nella tragedia originale ma per i Motus questo personaggio ambivalente, in bilico sempre tra due maschere, tra due identità tra le quali non sa scegliere, un autoritario sovrano e un vecchio burocrate fallito, cede alla morte. Per un colpo d’arma da fuoco, per un infarto, non si sa. Ma quel corpo immobile, steso col capo chino, viene quasi ricollocato in una dimensione familiare quando la nostra Antigone-Silvia disegna alle sue spalle il quadro presente all’ingresso, vicino al telefono di casa sua.  

Commenti all'articolo

  • Di Gian Carlo Zanon (---.---.---.183) 4 novembre 2010 12:44
    Gian Carlo Zanon

    Mai come ora Antigone è il simbolo della ribellione contro le leggi di Creonte, il tiranno che con le sue leggi vuole annullare l’umano. Antigone si ribella, nonostate gli possa costare la vita tanto amata, perchè la legge della sua immagine interna ( la legge degli dei inferi, interni) stride tragicamente con le leggi di un tiranno che vuole, guarda caso, una legge ad personam.
    Antigone sarà sempre là sulle barricate della verità umana quando i tiranni tenteranno di eliminarla. Come scrive Anouilh, questi tiranni tirano al popolo, come fossero cani, briciole di felicità materiale pagata a caro prezzo.
    Ed è a questa "felicità" e a questa normalità, che non vuole vedere la verità, che Antigone si ribella, sempre.
     Antigone: Me lo sapete dire? Potete aiutarmi? A chi dovrò sorridere, a chi mentire, a chi vendermi? Chi dovrò lasciar morire girando la faccia dall’altra parte per avere anch’io il mio bocconcino di felicità?

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