• AgoraVox su Twitter
  • RSS
  • Agoravox Mobile

Home page > Tempo Libero > Cinema > Miele - La ilusiòn de vivir

Miele - La ilusiòn de vivir

Si è parlato molto di questo film, esordio di Valeria Golino alla regia, come di un film sull’eutanasia. Per un personalissimo parere, “protagonista” del film non è l’argomento eutanasia: essa è mostrata come una pratica possibile anche in Italia, la medicina c’è, c’è pure la preparazione e la scelta della musica che accompagni il trapasso, non mancano i risvolti affettivi d’obbligo nelle persone che hanno deciso di non soffrire più e nei loro familiari, le lacrime, tutto naturalmente rappresentato, una pratica semplice in fondo. Densa di pathos la morte di un giovane ragazzo accompagnato dall’abbraccio e dal pianto di sua madre.

Protagonista attorno a cui gira il film è Irene (Jasmine Trinca), detta Miele quando svolge la funzione di “undertaker”, accompagnatrice all’altro mondo di persone che così hanno deciso: ha la tragedia disegnata in un volto duro, quasi incomunicabile, l’aria tremendamente seria sia che parli con suo padre o che consumi amplessi col suo compagno, persone che non sanno nulla dell’attività che svolge, serissima tra Roma, Padova, Los Angeles e Messico, dove procura il Lamputal, veleno per uccidere animali in stato terminale.

Non smette quell’espressione nemmeno quando si sfianca in lunghe forzose nuotate con la muta, come a voler scrollarsi di dosso la pesantezza di quel mestiere. È protagonista la sua solitudine, il dover celare il suo “lavoro di merda”, così glielo definisce la sorella di un morituro. Per strada chiede a una turista giapponese di farsi una foto con lei: è tremendamente sola Miele-Irene. Non si può dire che abbia il tempo per stabilire con chi muore un rapporto, che del resto è innecessario (i “verbi al futuro” sono banditi in questi casi).

Irene è “chimica e solitaria”: così la apostrofa l’ing. Grimaldi (Carlo Cecchi), un anziano di grande cultura, che sembra aver visto tutto il visibile nel mondo e che ha deciso di andarsene, non per malattia terminale ma per il “male di vivere”, la mancanza di stimoli e di progetti, l’assenza di illusioni. Apparentemente cinico, nel film è pure pronunciata la parola “stoico”, ma forse non del tutto propriamente. È con lui che Irene si apre un po’, con lui va via la durezza del suo viso, l’unica persona con cui comincia a comunicare per davvero e può perfino sfogarsi, piangere come a togliersi una scorza di dosso (“nessuno vuole morire veramente”, “con i malati è più facile”, gli confessa tra molte altre cose). Mentre con le altre persone la morte le sembrava una pratica da sbrigare, con Grimaldi le appare innaturale, desidera che viva, vuole riprendersi il veleno che gli ha consegnato. Tra i morituri Irene-Miele ha trovato un rapporto umano autentico.

Boris Sollazzo a Radio24 ha definito il film come “Inizio respingente, finale sdolcinato”. È certamente un buon film, accostare l’eutanasia alla voglia di vivere e far progetti (“tener la ilusiòn” direbbero gli spagnoli) e alla solitudine di Irene, la sua ricerca di sé. È costellato però di “pretesti” riempitivi, le immagini suggestive e la creazione continua dell’attesa che qualcosa avvenga, l’aria di “gravità” di quasi tutti i momenti, che del resto ricordano la gravità delle espressioni della Golino nei suoi film da attrice, peraltro ottimi. In certi casi il film è indugiante, come un aereo che possa andare in stallo e collassare al suolo. Questo commento contiene uno “spoiler”: Grimaldi non farà a Irene il torto di avvelenarsi con il Lamputal.

Lasciare un commento

Per commentare registrati al sito in alto a destra di questa pagina

Se non sei registrato puoi farlo qui


Sostieni la Fondazione AgoraVox







Palmares