• AgoraVox su Twitter
  • RSS
  • Agoravox Mobile

 Home page > Attualità > Salute > Mario Melazzini e la sua inguaribile voglia di vivere

Mario Melazzini e la sua inguaribile voglia di vivere

"Non bastano le disgrazie a fare di un fesso una persona intelligente" (Cesare Pavese). "Un imprevisto è la sola speranza. Ma dicono ch’è una stoltezza dirselo". (Eugenio Montale)

Prima scalava le montagne. Oggi è un’impresa persino reggere un bicchiere d’acqua, senza farlo cadere. Non può muovere più né braccia né gambe. Viene nutrito e idratato in modo artificiale tramite Peg (grastrotomia percutanea), supportato di notte nella respirazione con la ventilazione non invasiva.

E sa che non manca molto alla sua fine. La sua vita è segnata dalla Sclerosi Laterale Amiotrofica, che significa cinque anni di vita in genere ed una paralisi progressiva dei muscoli. Eppure di sé dice: "Mi sento sempre più un uomo fortunato, perché grazie a Lei, la Sla, ho imparato a vivere la malattia e la sofferenza, come un valore aggiunto, che mi permette di vivere il mio percorso di vita con serenità".

Ma per Mario Melazzini, medico, nato nel ’58 a Pavia e diventato Primario a soli 39 anni, non è stato sempre così. Il desiderio di andare avanti è arrivato solo dopo alcuni anni. E lo scrive nel suo libro: "Io sono qui", edito da San Paolo, quando racconta:

"Mi sono sempre sentito un uomo realizzato, un vincente, ma sempre alla ricerca di qualcosa, sino a quando non mi scontrai, o meglio, mi incontrai, con Lei, la malattia, la Sclerosi Laterale Amiotrofica. Cominciò così la mia lunga odissea, fatta di incertezze, paure, tensioni, visite mediche. All’inizio della malattia mi sono chiesto se la vita potesse essere e fosse degna di essere vissuta anche con lei, la malattia che mi avrebbe reso progressivamente prigioniero del mio corpo. Inizialmente dissi no, anzi volevo morire, pensai anche al suicidio assistito.

Per fortuna mia qualcosa è cambiato in me, perché non è poi così vero che la malattia, anche una malattia subdola e invasiva come la Sla, sottrae completamente una vita. Certo, la trasforma, la segna in profondità, ma non decide del suo significato. E’ che pensavo e ragionavo secondo quello che io chiamo il tema del benpensante, secondo cui, in determinate condizioni di fragilità o di malattia, di disabilità, la vita non è più degna di essere vissuta.

Ma così, si perde di vista il nucleo del problema: la vita umana, l’essere umano, la persona. L’essere stato colpito da una malattia grave ed invalidante mi permette, nella mia duplice veste di medico e di paziente, di aver accesso ad un sapere unico, cioè a quella sintesi tra scienza e sofferenza che solo da medico ammalato ho potuto portare a termine compiutamente”.

A compiere il miracolo e ad aiutare Mario ad accettare con serenità la Sla, sono state le sue amate Alpi, dove, dopo aver conosciuto la diagnosi, si è rifugiato per un breve periodo senza la sua famiglia. Una vera sentenza di morte, pronunciata da un professore.

Era il 2003: "Caro Melazzini, lei ha la Sclerosi Laterale Amiotrofica, ed io mi fermo qui". In quel momento mi scontrai con l’impotenza della Medicina, la Scienza che tanto amavo e a cui pensavo di aver dato molto. E la sofferenza fu ancora più acuta.

"Ripenso – si legge nel suo libro – a quel colloquio, a quella terribile e disarmante comunicazione. Un esempio di come si possa essere un pessimo medico, nonostante una competenza eccezionale". Forse, a distanza di alcuni anni, è stato proprio quel triste colloquio a dargli una nuova vita.

A farlo rimbalzare, dopo essere stato scaraventato a terra. Ha capito che i suoi malati avevano bisogno di lui, più di prima. Non avrebbe potuto abbandonarli.

"Mi sono sempre considerato – si legge ancora- un medico attento ai bisogni dei malati. Ho sempre cercato di creare un rapporto umano con i miei pazienti. Ma ora è diverso, ora ho la fortuna di provare che cosa significa essere malato. Ed è tutto diverso, da quando ho visto l’abbandono nel quale sono lasciate le persone fragili. Ho capito che c’è molto da fare per chi, come me, ha un male definito inguaribile. Non è solo del medico che il malato ha bisogno. Ha bisogno che qualcuno si faccia carico di lui, lo ascolti, capisca quali sono i suoi problemi, i suoi disagi e lo aiuti ad affrontarli.

Ecco, se prima mi occupavo di cercare di guarire, ora voglio curare. Sì, perché inguaribile non è sinonimo di incurabile. E anche se non posso guarire, voglio continuare ad essere d’aiuto per gli altri, i miei pazienti, i miei compagni di malattia, in tutte le fasi del loro difficile percorso. E’ questo il mio obiettivo. Il mio bisogno come medico. Come malato. E come uomo. Io sono qui”.

Sono, quindi, lontani i giorni, in cui Mario pensava di farla finita e perdeva le ore a navigare in Internet, alla ricerca di strutture che lo aiutassero a morire. "Sono sempre stato – scrive – una persona che credeva nei valori e nel valore fondamentale della vita, o almeno così credevo, ma in quel momento volevo solo morire.

Nel mio navigare uscì fuori il nome di un’associazione svizzera. E’ nel Canton Ticino. Do un’occhiata all’homepage, alle sezioni interne. Mi sembrava un’organizzazione ben strutturata. Iniziai a prendere informazioni da un’amica, che ad un certo punto, dopo i primi contatti, disse che non se la sentiva di continuare. Allora mandai un’email. Telefonai all’associazione svizzera perché volevo parlare con un operatore. La telefonata mi sembrò surreale, fredda, asettica. Mi sembrava di parlare con l’impiegato di un ministero.

Ho sentito un gelo incredibile che mentre parlavo mi saliva dalla punta dei piedi all’ultima radice dei capelli. Mi fissarono un appuntamento per il mese successivo per l’incontro preparatorio con il team. Cercai di immaginare la scena. Un luogo indifferente, una stanza bianca con un medico, uno psicologo, un infermiere che mi avrebbero informato sulle procedure di accompagnamento alla morte.

Probabilmente fu per il tono della telefonata, per la paura, per l’angoscia esistenziale che mi stava assalendo, che qualcuno mise la mano sul mio capo, e decisi di fermarmi nel mio intento, di riflettere ancora, di capire se ero veramente convinto.

E ora? Dal 2006 Mario è Presidente Nazionale dell’Associazione Italiana Sclerosi Laterale Amiotrofica e dal 2007 Direttore scientifico del centro clinico NeMo della Fondazione Serena Azienda Ospedaliera Niguarda per la ricerca e la cura delle malattie neuromuscolari, il più grande progetto che ha voluto e ha realizzato dopo che si è ammalato.

Nei cantieri c’era lui, munito di cappello di sicurezza, anche se su una sedia a rotelle. E il nome della struttura, chiesta a gran voce dai malati, non è stato scelto a caso. E’ quello di un pesciolino, che ha la pinna atrofica.
Il medico, dunque, è lì. Con i suoi amici, tra cui il cantante Ron, che non l’hanno mai abbandonato e i suoi pazienti. Quelli che hanno deciso di compiere un percorso alternativo a quello di Welby.

Non tutti, fa capire il professionista, vogliono morire. Alcuni vorrebbero continuare a vivere, ma in modo dignitoso. Con una migliore assistenza e più risorse economiche. E’questo il punto, che non si è ancora capito. Tante le battaglie fatte per riconoscere il diritto a morire in pace. Ma ci sono tante persone che, nonostante la malattia, desiderano andare avanti. Però, hanno bisogno di aiuto. Scrive ancora Mario:

“Il limite infatti aiuta a sperimentare ciò che nella vita realmente vale e quanto l’altro, per come è, sia fondamentale per la propria vita. E’ necessario comprendere che la fragilità può diventare opportunità per scoprire la bellezza dell’esistere. Occorre partire dal presupposto che la vita umana è un mistero irriducibile, che non può essere descritto esclusivamente dai soli elementi biologici e pertanto non è ammissibile l’idea per cui una vita sia degna di essere vissuta solo a certe condizioni.

La malattia deve cominciare ad essere considerata salutare, perché aiuta a rendersi conto che non bisogna mai dare nulla per scontato, neppure bere un bicchiere d’acqua senza soffocare, abbracciare i propri figli, i propri affetti oppure alzarsi da una sedia senza l’aiuto di altri. A volte siamo cosi concentrati su noi stessi che non ci accorgiamo della bellezza della persona e delle cose che abbiamo intorno da anni, magari da sempre. Così, quando è la malattia a fermarti bruscamente, può accadere che la scala di valori cambi. Che ci si accorge di come le cose che fino a quel momento consideravamo più importanti non lo siano davvero”.

La sofferenza, dunque, può diventare opportunità di una vita nuova, più intensa, ma solo a certe condizioni. "Sono tempi – scrive – in cui si discute sempre più spesso, e con sempre minore chiarezza, di diritto alla morte, di eutanasia, di suicidio assistito. Io penso che riconoscere la dignità dell’esistenza di ciascun essere umano sia il punto di partenza di una società che si definisce civile.

Sarebbe importante discutere su che cosa si stia facendo per evitare l’emarginazione delle persone con gravi patologie invalidanti. Ragionare su quanto, al momento attuale, si stia investendo nell’assistenza domiciliare e nella cultura della salute".

Forse, a volte, è il malato solo, abbandonato a se stesso, senza risorse sufficienti, a chiedere di morire. "Ecco - aggiunge - io mi batterò finché posso, perché la dignità delle persone fragili sia riconosciuta e favorita con i fatti. Sono convinto che la malattia non porti via le emozioni, i sentimenti, la possibilità di comprendere che l’essere conta più del fare. Può sembrare paradossale, ma un corpo nudo, spogliato della sua esuberanza, mortificato nella sua esteriorità, fa brillare maggiormente l’anima, ovvero le chiavi che possono aprire, in qualunque momento la via per completare nel modo migliore il proprio percorso di vita".

Cosa è rimasto della sua vita precedente? Di sicuro le sue montagne. Le sue adorate montagne. Beh, a quelle Mario non può proprio rinunciare. Sembra che con loro la sua anima si sia ormai fusa. Prima ci andava da solo, ora ci va sulle spalle dei suoi amici, grazie ad una speciale barella che assomiglia parecchio a una sedia gestatoria: e lì sembra un Papa.

Almeno, a sentire l’amico, Emmanuel Exitu, regista, che ha realizzato il documentario "Io sono qui "– sette giorni di appunti sulla vita di Mario Melazzini (medico, malato, uomo), che dichiara: "Mario ha deciso di farsela tutta la sua scalata, e da sempre più in alto grida a noi paurosi:"Io sono qui! Si può arrivare fin qui.

Da sotto fa paura, certo, e la vertigine spesso torna. Ma ho deciso di andare perché qualcosa di bello chiama. E da sano non potevo immaginare che fosse cosi bello. E, voi, cosiddetti sani, si può sapere di cosa là blaterate sotto se non vedete quello che vedo io? Di cosa spettegolate se non venite quassù dove sono io?".

"Mario – continua il regista – non è un eroe, è un testimone (innanzitutto a se stesso, alla verità di sé) della bellezza che ha visto. Che cosa abilita un testimone? Che abbia visto. Il resto non conta: basta aver visto e poi, ancora, vedere. E vedere, vedere, vedere, vedere. Più vedi e segui, più diventi capace di vedere. Allora il panorama si apre e vedi, vedi tutto, vedi che le nuvole nere sono solo una parte dell’orizzonte, e nemmeno la più grande".

L’incanto delle montagne, dunque, la grande terapia di Mario. Con le sue cime, "I denti di Michele" (Punta Cassana) Mario è riuscito a trascendere la paura di vivere nella sofferenza. Queste poche righe, scritte sempre nel suo libro, lo testimoniano: "Ora so di aver superato la barriera che mi separava dalla mia anima e nell’esaltazione di questo momento provo un gran desiderio di piangere. Un pianto che stranamente si sostituisce con un canto, sommesso all’inizio e poi sempre più forte, come dovessi liberarmi da un incubo".

Il miracolo è avvenuto.

Questo articolo è stato pubblicato qui

Lasciare un commento

Per commentare registrati al sito in alto a destra di questa pagina

Se non sei registrato puoi farlo qui


Sostieni la Fondazione AgoraVox







Palmares