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Maradona è più forte di Messi, parola di palla

Potrei approfondire il dato, come vedo fare a molti sulla rete, che Lui giocava con degli incapaci e Messi invece con la squadra più forte della storia. Potrei sostenere con motivazioni lunghissime che Lui ha vinto in due continenti e sempre con formazioni discutibili, mentre Messi è nato, cresciuto e pasciuto nel Barcellona dei record. Potrei anche stroncare ogni polemica, ribadendo che Lui ha vinto un Mondiale con e guadagnato una finale giocando con Dezotti e Barbas, panchinari di Cremonese e Lecce, mentre Messi in Sudafrica se l’è fatta addosso; e se qualcuno cerca di argomentare le pessime prestazioni della Pulce con l’ansia che le aspettative alimentavano, state sicuri che Lui di aspettative e di necessità di dimostrare la sua caratura ci ha campato fino all’ultimo secondo in cui ha solcato i campi, dovendo fare i conti con gli echi della sua vita smisurata. No, per dichiarare senza ombra di dubbio che Maradona resta infinitamente più forte di Messi - fresco di terzo Pallone d'oro consecutivo - non userò queste riflessioni. Lo fanno in tanti, sono autoevidenti. E neanche il fatto tecnico: non è che la forza di un giocatore si decida su qualche tocco in più in dotazione o su un gol più bello, dato che ci troviamo di fronte a campioni di calibro eccelso.

Riporto la splendida affabulazione che lo scrittore Maurizio De Giovanni inserisce nel suo “La lunga storia del gol più bello di tutti i tempi” in veste di presentazione di Diego: “Lui faceva così: in qualsiasi parte del campo, lo trovavi più vicino degli altri, come se avesse già visto la partita e se la ricordasse a memoria, come se la palla gli avesse parlato, senti un po’, allora mettiamoci d’accordo: io rimbalzerò due volte, la seconda volta un po’ storta perché c’è una zolla, e cadrò esattamente là; fammi trovare il tuo piede sinistro, e io ci sarò”. Non c’entrano, come ho già detto, motivazioni tecniche. Né le partite. No, è il contrario. Quello a cui mi riferisco avviene fuori dal campo, esce dalle contingenze per consegnarsi all'eternità dell'arte e delle leggi fisiche. Perché quando lo tocca Maradona, il pallone subisce una scossa magnetica: non può separarsi da lui. Merito del primato che Diego gli conferisce. Ho visionato migliaia di filmati, e il dato più notevole è che se c’è una sfera, Diego si disinteressa del resto. Guardate quando va in televisione per raccontare la sua vita. Puntuale, a fine intervista il presentatore gli fa materializzare un pallone. Lui sta lì per esibirsi, potrebbe prenderla a cuor leggero. Invece no. Anche se si tratta di fare dieci palleggi davanti alle telecamere, quella che gli rimbalza davanti torna ad essere la sua ragione di vita, è più forte di lui. 
 
Assorto, serissimo, si ricollega al respiro della terra come un buddista con un “Nam myoho renge kyo”. Il resto scompare, tutto è ridotto ad un movimento sferico e celeste. Andatavene, voi resto del mondo, che volete capirne del mio dialogo eterno col pallone, pare dire Diego senza aprire bocca. Solo, seguendo quel manufatto di stoffa sintetica che precipita nella modernità quello che Pitagora chiamò il Divino. Come scrisse Brera: “Il fascino del giuoco del calcio viene dalla sfericità della palla, che per essere sempre e dovunque in perfetto equilibrio si trova in certo modo a mimare la prodigiosa armonia dei mondi”. La palla è l’icona di Dio e Maradona il suo sciamano preferito. Come se fosse l’unico centro di gravità possibile, l’unico punto in cui questa immagine di perfezione può andare a finire. Notate Diego nel balletto sulle note di “Life is life”, prima della semifinale che il Napoli disputò con il Bayern Monaco. Per imprimere entusiasmo ai compagni mostra gli unici muscoli possibili: il suo rapporto con la sfera. Con la quale danza, come a ricordare “niente paura, qua ci sono io con il mio elemento naturale, e non ce lo leveranno mai”. La palla, lontana da Diego, prova nostalgia.
 
Un ultimo richiamo storico che forse mi colpisce più degli altri. È la prima partita dei mondiali ’90, a Milano. L’Argentina, in quanto detentrice del titolo, ha l’onore di aprire i giochi contro il Camerun. Diego scambia i gagliardetti con Roger Milla, capitano della squadra africana. È un momento topico, sta per iniziare il Mondiale, le telecamere di ogni paese sono sintonizzate con quel punto della terra. Dopo i saluti di rito, mentre l’arbitro si coordina con i collaboratori, non si sa da dove arriva un pallone sul sinistro di Diego. Lui lo alza, e inizia a palleggiare di tacco e di spalla. Ora smetterà, pensano tutti, deve iniziare una delle gare più attese del Mondiale. E invece no, lui continua. Gli si avvicinano degli addetti, gli chiedono di finirla. Ma Lui prosegue, sta parlando con l’essenza intima di sé stesso. Anche se gli occhi del pianeta aspettano l’inizio della gara, per Lui è più importante capire cosa gli sta dicendo la sua amica. Finché non nascerà un giocatore capace, come Lui, di dare priorità al pallone su tutto il resto, su telecamere e premi, su partite e onori, non ci sarà uno più forte di Diego.
 
È la palla, che dà ragione a Diego. Chiedetelo alla palla, chi è il più forte

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