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Lo scontro fra i due Assi

«Larghi settori del mondo sunnita, con l’Arabia Saudita in testa, sarebbero pronti a convivere con Israele: ma il problema resta il rifiuto del governo Netanyahu a riconoscere uno Stato palestinese in Cisgiordania e Gaza. Il premier saudita Mohammed bin Salman mi ha spiegato di non avere nulla contro l’esistenza di Israele. Anzi, è ben disposto alla piena cooperazione, però occorre che si torni alla formula della pace in cambio della terra. Anche per questo i sunniti del Golfo non hanno sostenuto Hamas un anno fa e oggi non piangono per la morte di Nasrallah» 
Così il politologo e arabista francese Gilles Kepel, intervistato dal Corriere della Sera.
 
La formula "pace in cambio della terra" rimanda direttamente alla proposta di trattativa israeliana del 1967, immediatamente dopo la guerra dei Sei giorni, provocata da Nasser con la violazione degli accordi armistiziali precedenti sulla demilitarizzazione del Sinai e con il blocco navale del porto di Eilat e finita con l'espansione territoriale di Israele fino alle rive del Nilo e del Giordano.
 
La proposta di trattativa si infranse contro un rifiuto secco.
La Lega araba, riunita a Khartoum, rispose con i suoi famosi "tre no": no ai negoziati con Israele, no al riconoscimento di Israele e no alla pace con Israele. Rifiuto che ha dato inizio al problema tuttora irrisolto dei Territori e anche all'inizio del delirio israeliano di poter controllare e sottomettere (o espellere) una popolazione ostile.
 
Nel frattempo l'ONU si esibiva in una delle sue più ridicole e penose ambiguità storiche, licenziando la risoluzione 242 che conteneva concetti diversi a seconda della lingua usata, entrambe ufficiali: la versione francese imponeva a Israele il ritiro integrale da tutti i territori occupati, da quella inglese si capiva che anche un ritiro parziale andava bene. I conti con l'Egitto furono regolati in seguito, quella della West bank solo parzialmente con gli accordi di Oslo.
 
Dopo ben 57 anni (e guerre e intifade e tentativi e fallimenti e decine di migliaia di vittime, compresi Rabin e Sadat) siamo esattamente a questo punto: a proporre di ricominciare da quel 1967, con un Nuovo Inizio dopo la guerra dei Sei giorni.
 
I protagonisti di oggi sono il cosiddetto "Asse della Resistenza" (Iran, Hezbollah, Hamas, Houti, Siria), e sul fronte opposto un ipotetico "Asse di Abramo" fra Israele e stati arabi.
 
La strategia del cosiddetto "Asse della Resistenza" è la continuazione diretta dell'intransigenza dei "tre no di Khartoum": la sua proposta di soluzione è "porre l'entità sionista nel nulla" (Statuto di Hamas), l'eliminazione di Israele e la liberazione della Palestina "dal fiume al mare".
Quella dell'Asse di Abramo è palesemente la soluzione a due stati, divisi da un confine concordato, e finalmente l'integrazione di Israele in un Medio Oriente che finora non ne ha accettato la presenza.
 
Nel mezzo, a decidere la strada del futuro, c'è la guerra a tutto campo tra Israele e l'Asse gestito da Teheran.
 
Le prospettive sono due: se il conflitto si risolve con un deciso contenimento dell'Iran, gli arabi dell'Asse di Abramo pretenderanno, insieme all'accordo, una soluzione definitiva della questione palestinese, quale che sia, e la strategia degli accordi (imposta da Trump nel 2020) sarà sul tavolo indipendentemente dall'esito delle elezioni americane.
 
Se il conflitto non risulterà risolutivo si tornerà esattamente alla situazione precedente il 7 ottobre che si ripeterà, presto o tardi, con il suo corollario di reazioni distruttive, guerra e infiniti lutti, senza soluzione a due stati e con una strategia israeliana fortemente dipendente da chi si siederà nello Studio Ovale: ripresa della guerra aperta all'Iran o guerra di logoramento a bassa intensità, per anni, fino alla prossima deflagrazione.

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