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Lezioni francesi e controriforme italiche

Lo scorso 18 giugno si è chiuso il ciclo elettorale francese. Tra la fine di aprile e l’inizio di maggio, i francesi hanno scelto il nuovo presidente della Repubblica. A metà giugno (l’11 e il 18), hanno rinnovato l’Assemblea Nazionale.

 

Il ciclo elettorale francese era molto atteso. Le stragi islamiste e l’uscita della Gran Bretagna dall’UE avevano accresciuto le possibilità di un’affermazione del Front National di Marine Le Pen. La sua vittoria avrebbe portato la Francia fuori dall’Euro e fuori dall’Unione europea, decretando la morte delle istituzioni comunitarie e il trionfo del nazional-plebeismo.

Le paure della vigilia sono state fugate dalla netta vittoria di Emmanuel Macron. Il nuovo presidente ha vinto scommettendo sulla maggiore integrazione europea. Ha promesso il completamento dell’unione bancaria, la realizzazione di un’unione fiscale e l’avvio della cooperazione militare a livello europeo. Votando per Macron, i cittadini francesi hanno fatto una scelta esistenziale, prim’ancora che politica. I francesi, infatti, hanno scelto l’Europa e hanno ribadito la loro fedeltà ai valori illuministici di libertà e uguaglianza. Tutto ciò non era affatto scontato, soprattutto dopo la decisione dello scorso anno del popolo britannico di abbandonare l’Unione europea. La scelta dei francesi, pertanto, è stata un’autentica contro-Brexit e ha assestato un colpo durissimo al montante nazional-plebeismo.

L’11 e il 18 giugno, i francesi, eleggendo i propri deputati, hanno dato la maggioranza parlamentare al partito del nuovo presidente. Anche questo risultato non era affatto scontato. Molti osservatori prospettavano l’eventualità di un’insufficiente affermazione del neonato partito macronista “En Marche!”. Invece, “En Marche!” ha ottenuto la maggioranza assoluta dei seggi; il nuovo presidente, pertanto, non dovrà negoziare con altre forze politiche il proprio ambizioso programma riformatore.

Anche stavolta, la riforma anticoabitazionista del 2000 ha funzionato alla grande. La riduzione, da 7 a 5 anni, della durata del mandato presidenziale e le elezioni legislative tenute un mese dopo le presidenziali sono bastate ad evitare le fastidiose coabitazioni tra presidente e primo ministro di diverso orientamento politico. Le coabitazioni tra presidente socialista e primo ministro gollista (e viceversa) sono, per fortuna, solo un lontano ricordo. La V Repubblica, voluta dal patriota e generale Charles de Gaulle, funziona finalmente alla perfezione, dando ai cittadini francesi la possibilità di fare scelte politiche e mettendo i governanti eletti nella condizione di attuarle.

Tutto questo non è possibile in Italia. Il 4 dicembre 2016, la maggioranza degli italiani è stata indotta a credere che un’innocua e necessaria riforma costituzionale fosse un tentativo di colpo di stato. La vittoria del No ha rilegittimato un antistorico bicameralismo e la bradipocrazia che ci sgoverna da 70 anni.

Le prossime elezioni politiche, purtroppo, non ci daranno, come accaduto dal 1994, un vincitore (anche parziale) della competizione elettorale e non serviranno a designare una maggioranza parlamentare. Questo sarà l’effetto della vittoria del No. Ritorneremo ai soliti, vecchi, marci e decrepiti riti della prima Repubblica. Non è nemmeno immaginabile il modo in cui si uscirà da una più che probabile situazione d’ingovernabilità. La parte egemone dell’intellettualità italica non si pone questo problema, perché considera democratica solo la delega di potere dei cittadini ai partiti politici ed antidemocratica la scelta dei governanti da parte dei cittadini. Per questi inutilmente colti, la scelta popolare dei governanti pone le basi della deriva autoritaria e va scongiurata con ogni mezzo. L’intellettualità reazionaria non è nemmeno in grado di percepire quanto siano importanti la governabilità e la stabilità di un sistema democratico, in assenza delle quali possono prodursi delle pericolose involuzioni autoritarie. I teologi dell’ingovernabilità ignorano le lezioni della Storia e il fatto che le dittature siano state partorite da sistemi democratici inceppati, anziché da funzionanti democrazie dell’alternanza.

Sono queste mostruose tare della gran parte dell’intellettualità italica che tengono il popolo italiano in una condizione di minorità e c’impediscono di poter fare scelte analoghe a quelle dei francesi.

L’ingovernabilità prossima ventura mette tanta rabbia in chi, dal 1990 in poi, ha sottoscritto tutti i referendum elettorali promossi per avere anche in Italia una funzionante democrazia dell’alternanza. Rabbia che degenera nell’ira quando constato che, da 24 anni, abbiamo una buona legge per l’elezione dei sindaci e dei consiglieri comunali. Basterebbe adottare a livello nazionale il modello di elezione dei sindaci per avere anche in Italia una democrazia decidente e funzionante, persino migliore di quella francese.

Avete letto bene: migliore di quella francese! Perché l’assegnazione, in sede di ballottaggio, della maggioranza parlamentare alla coalizione più votata eviterebbe sia le rigidità e i rischi dei sistemi presidenziali, sia la crescente astensione prodotta dalle quattro ravvicinate tornate elettorali d’Oltralpe. All’inizio degli anni novanta, la morente prima Repubblica aveva individuato una buona soluzione al problema della scarsa governabilità italiana, ma nessuno dei politicanti poi giunti al potere ha voluto trasporre a livello nazionale quella intelligente e lungimirante riforma.

Non solo non siamo andati avanti, ma siamo tornati indietro e siamo stati travolti da un movimento controriformatore e reazionario, tipico della peggiore tradizione italica. E a capo della Controriforma istituzionale ci sono intellettuali che si credono dei geni, sebbene siano solo gli eredi antropologicamente legittimi dei cardinali Roberto Bellarmino e Fabrizio Ruffo di Calabria.

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