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Legge elettorale: e se adottassimo quella australiana?

Tutti concordano sulla necessità di rendere omogenee le regole elettorali per Camera e Senato, ma poi ci si divide sul sistema da utilizzare: maggioritario o proporzionale?

di Rocco Artifoni

Il Presidente del Consiglio dei Ministri Paolo Gentiloni ha espresso la posizione del nuovo esecutivo: “Cercherò di svolgere il compito con dignità e responsabilità per accompagnare e facilitare il lavoro parlamentare nel definire le nuove regole elettorali”. Qui si può cogliere immediatamente – almeno nelle intenzioni – una significativa differenza rispetto al governo precedente. Al Parlamento spetta il compito di approvare le leggi elettorali, auspicando che non si ripeta la forzatura realizzata da Matteo Renzi, il quale sulla nuova legge per l’elezione dei deputati (detta “italicum”) aveva posto la questione di fiducia, che dal 1948 ad oggi aveva come unico precedente la cosiddetta legge “truffa” nel 1953. Quest’ultima fu abrogata nel 1954 e pare molto probabile che anche l’attuale testo dell’”italicum” avrà vita breve, a riprova che le forzature istituzionali hanno le gambe corte.

La scelta tra proporzionale o maggioritario (seppure il modo in cui viene realizzato può essere alquanto diverso) porta con sé tendenzialmente due concezioni della politica. Chi propone il proporzionale privilegia il valore della rappresentanza, cioè ritiene che il Parlamento debba essere lo specchio del popolo sovrano.

Di conseguenza ogni governo necessariamente dovrà essere sostenuto dalla maggioranza dei parlamentari in rappresentanza della maggioranza degli elettori. Ciò significa che le coalizioni dovranno essere ampie e perciò composte da forze politiche anche molto disomogenee.

Chi opta per una legge maggioritaria (con premio di maggioranza o attraverso collegi uninominali, che favoriscono i partiti maggiori) si pone l’obiettivo di formare maggioranze più coese, per dare maggiore stabilità al governo, sacrificando per questo una rappresentanza corrispondente al volere popolare.

La storia politica italiana ha mostrato che il sistema proporzionale tende a dare continuità alle coalizioni parlamentari: per decenni la maggioranza è stata formata dal primo partito (la DC) e dai suoi alleati, con variazioni minime. I sistemi maggioritari, introdotti negli ultimi due decenni, hanno portato a continue alternanze nelle maggioranze parlamentari, che talvolta non hanno garantito nemmeno una maggiore coesione e stabilità. Basti ricordare che gli ultimi due governi (Letta e Renzi) sono caduti sostanzialmente per ragioni interne al principale partito della maggioranza (PD).

Nella discussione sulle leggi elettorali di solito si prende esempio dalla legislazione in vigore in alcuni importanti paesi europei: Germania (proporzionale), Gran Bretagna (maggioritario uninominale) e Francia (maggioritario a doppio turno). In realtà ci sono anche altre esperienze che potrebbero essere considerate come punto di riferimento.

Tra i sistemi maggioritari con collegi uninominali forse il metodo più interessante è quello utilizzato in Australia. Gli elettori non mettono una croce sul candidato preferito, ma devono indicare il numero di preferenza accanto a ciascun candidato del collegio uninominale. In fase di scrutinio in un primo momento si conteggia soltanto la prima preferenza. Se nessuno dei candidati raggiunge il 50% dei voti, si procede alla riassegnazione delle seconde preferenze del candidato che ha ottenuto il minor numero di consensi come prima preferenza. Se anche dopo questa riassegnazione dei voti, nessun candidato raggiunge la maggioranza, si procede ulteriormente a riassegnare le successive preferenze del candidato con minori voti, fino ad arrivare al superamento della soglia del 50%: il che al limite accade quando restano soltanto due candidati.

Questo sistema elettorale ha alcuni evidenti pregi. Anzitutto, nessun voto viene sprecato, poiché ogni elettore concorre comunque a determinare il vincitore di un collegio, tenendo conto delle sue preferenze. Non esiste il problema del voto utile, che spinge alcuni elettori a votare per i candidati dei maggiori partiti anziché per quello preferito. Il candidato vincitore è necessariamente rappresentativo del territorio, poiché viene scelto da almeno il 50% dei votanti. Si vota in un turno unico, ma con un sistema che contiene implicitamente tutti i successivi turni di confronto tra i candidati, grazie all’ordine delle preferenze indicate nella scheda.

Questo metodo è sicuramente valido ogni volta che occorre scegliere un solo eletto: per esempio per le primarie di un collegio, per il segretario di un partito o per il leader di una coalizione. Teoricamente questo sistema potrebbe essere applicato anche alle coalizioni, che in questo modo verrebbero determinate dagli elettori, anziché da trattative tra forze politiche successivamente al voto o tra il primo e il secondo turno.

Il sistema australiano – così come il sistema proporzionale – non può garantire una maggioranza certa, ma occorre ricordare che nemmeno la legge elettorale approvata nel 1993 (il cosiddetto “mattarellum”) poteva dare questa garanzia.

Soltanto sistemi elettorali come i successivi “porcellum” ed “italicum”, con l’assegnazione di un premio di maggioranza, possono avere come esito una maggioranza sicura. Ma questa certezza va a scapito del valore costituzionale della rappresentanza, come ha rilevato la Corte Costituzionale a proposito del “porcellum” (e si attende il pronunciamento di fine gennaio 2017 sulla legge ”italicum”). D’altra parte, si è verificato che, anche con l’assegnazione di premi di maggioranza, le maggioranze restano comunque incerte, perché le divisioni politiche tra partiti di una coalizione o tra correnti di un partito possono far venir meno qualsiasi maggioranza per quanto numericamente consistente.

Anche per questa ragione sarebbe importante e prioritario restituire protagonismo ai cittadini elettori, affinché possano scegliere in piena libertà i propri rappresentanti. Il che significa anzitutto che andrebbero abolite le liste o i capilista bloccati, che violano palesemente i diritti dell’elettore garantiti dall’art. 48 della Costituzione. Dopo molte elezioni che hanno portato in Parlamento schiere di nominati e non di prescelti dal popolo, il sistema australiano potrebbe essere utile anche per restituire credibilità alla classe politica italiana. Oggi è necessario dare spazio ad una spinta democratica che proviene dalla sovranità popolare, in modo che l’elettore si possa riconoscere nel rappresentante del proprio territorio, che ha direttamente contribuito ad eleggere in Parlamento.

Questo articolo è stato pubblicato qui

Commenti all'articolo

  • Di Persio Flacco (---.---.---.195) 21 dicembre 2016 14:55
    L’ordinamento costituzionale italiano non prevede che il Governo debba avere costantemente una maggioranza in Parlamento per rimanere in carica. Anzi: lo esclude, specificando che il voto contrario del Parlamento su una proposta del Governo non comporta l’obbligo di dimissioni di quest’ultimo (art.94 cost.). Una volta ottenuta la fiducia all’atto della presentazione alle Camere il Governo è legittimato ad esercitare il potere esecutivo fino al termine del suo mandato, o fino a quando il Parlamento non gliela revochi votando una apposita mozione con la procedura stabilita nello stesso articolo.
    In sintesi, la nostra Costituzione stabilisce che il Governo debba avere la fiducia una sola volta. La "questione di fiducia", ponendo la quale il Governo lega la sua permanenza in carica all’approvazione di un suo provvedimento, è inserita nei regolamenti di Camera e Senato ma NON ha rilevanza costituzionale. Nel merito è anzi contraria allo spirito e al disposto del suddetto articolo.
    Ed è ovvio che la Costituzione escluda la necessità che l’Esecutivo debba avere costantemente una maggioranza in Parlamento, visto che recepisce il principio cardine della separazione dei Poteri Sovrani: Legislativo ed Esecutivo sono, e debbono rimanere, poteri formalmente e sostanzialmente indipendenti l’uno dall’altro, benché connessi da una dialettica istituzionale finalizzata al superiore interesse della Nazione. Non vi alcuna base costituzionale quindi che giustifichi la limitazione del diritto di rappresentanza o la sua alterazione in nome della stabilità dei governi.
    La questione della cosiddetta "governabilità" è quindi del tutto pretestuosa, e palesemente serve a mascherare la necessità di conservare ai partiti politici il ruolo di centri di potere che abusivamente esercitano.
    • Di linuxfan (---.---.---.9) 21 dicembre 2016 17:32

      Complimenti a questo commento: la questione della cosiddetta "governabilità", che ci ha rotto i cosiddetti, non poteva essere spiegata meglio.

      Quindi, io credo, una legge elettorale proporzionale, una classe politica onesta, e il rispetto della nostra Costituzione sono le cose che ci servono, non altre fandonie con le quali ci stanno bombardando da troppi anni.

    • Di Persio Flacco (---.---.---.195) 22 dicembre 2016 09:28

      Grazie per i complimenti, ma in realtà il mio commento non fa che sfiorare la superficie di un sistema di potere che è il vero handicap di questo Paese. Purtroppo, a quanto ne so, non è nel programma politico di nessuna formazione politica la sua risoluzione, nemmeno in quello del cosiddetto terzo polo. Di fatto, dal secondo dopoguerra, l’Italia è una Partitocrazia: il potere è esercitato dai Partiti, non dalle istituzioni repubblicane democratiche. La trasformazione in senso bipartitico o bipolare avviata negli anni 90 non ha fatto che limitare a due soli partiti, o coalizioni di partiti, il monopolio del Potere: due poli, entrambi garanti del sistema economico, culturale e ideologico dominante, che alternandosi nell’occupare le Istituzioni, dessero ai cittadini l’illusione della Democrazia.

      Un tentativo non riuscito per la quota eccessiva di corruzione partitocratica che ha reso poco credibile la sua implementazione. In altri Paesi funziona perché l’assenza, o la assai limitata, gestione partitocratica del potere lo rende credibile. Da noi no.
      Ci sarebbe molto da analizzare e da scrivere sul tema. Che però, per la sua complessità, è assai difficile da trasformare in senso comune attraverso campagne sul web. Sarebbe necessaria la mediazione di una organizzazione politica strutturata che si faccia carico della sua complessità e la trasformi in iniziative politiche mirate a risolverla. Ma non vedo nulla del genere all’orizzonte.

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