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Lavoro o non lavoro? Un nuova era

Vorrei provare a fare un’analisi non politicamente corretta dei gravi problemi economici quali disoccupazione, povertà, e crisi del capitalismo, cominciando a far notare che a fronte del successo tecnologico mondiale di questo ultimo secolo vi è un progressivo percepibile aumento di mancanza di lavoro umano.

Lavoro o non lavoro? Un nuova era

Non lo si può più negare oramai, né far finta di non vederlo, eppure si continua a parlare di voler salvaguardare posti di lavoro in realtà impossibili da mantenere. Se il lavoro non c’è perché lo fanno le macchine, è inutile - anzi stolto - insistere a voler occupare a tutti i costi le persone. Ma i nostri politici intendono davvero l’occupazione, o intendono piuttosto le entrate fiscali? Quasi non accorgendosi di vivere nel 2010, oggi essi ragionano ancora come se fossero nell’Ottocento. Non vogliono capire che non si può più identificare l’essere umano con l’essere “lavoratore”, e che l’individuo ha una sua dignità indipendentemente dalla sua “forza lavoro”. E nessuno che dica che è proprio per questo valore che abbiamo faticato gli ultimi 100 anni: per non essere più schiavi del lavoro! Nessun partito politico e tanto meno nessun intellettuale si pone in questa nuova ottica.
 
Qual è per loro allora il valore più valido? Già Pound nel secolo scorso scriveva: "Il valore è dovuto in gran parte al lavoro. Il grano è disponibile perché la terra è stata lavorata; le castagne perché sono state raccolte. Ma molto lavoro è stato fatto da uomini - per lo più inventori, scavatori di pozzi, costruttori di impianti industriali, ecc.- ormai defunti, i quali dunque non possono né mangiare né vestire panni. Grazie a questa eredità di attrezzamento economico e scientifico messa a nostra disposizione da questi defunti, è stato creato un notevole patrimonio di credito sociale che può essere ripartito fra il popolo a titolo di premio e in aggiunta al salario" (Ezra Pound, "Scritti economici").
 
Pound dunque prefigurava l’avvento di una sorta di reddito, scaturente dai sacrifici e dal lavoro dei nostri predecessori, come un dividendo ripartito fra i soci di una società: oggi che la società abbonda di beni prodotti può, appunto, distribuire ad ognuno dei suoi membri una quota di ricchezza, a titolo di riconoscimento dell’appartenenza alla terra come esseri umani aventi la facoltà di goderne i frutti, acquisiti con l’intelligenza che nei secoli ha portato all’attuale tecnologia. Quindi oggi è possibile con un po’ di preveggenza, o di capacità di ragionare al passo coi tempi, prefigurare l’avvento di una società in cui la produzione di beni e servizi sia lasciata libera da ogni interventismo statale, e nella quale le grandi trasformazioni in atto servano a garantire la possibilità di una vita liberata dal lavoro obbligatorio, che si vuole trovare a tutti i costi, e a che costi: vedi le sovvenzioni dello Stato alle aziende in crisi, lavori socialmente utili ed altre scempiaggini keynesiane.
 
In che modo è dunque possibile? Attraverso l’idea di un reddito di base. Quest’idea cammina, e sarà il tema della nuova era. Se ne scorgono già i segni nel film documento svizzero intitolato “Grundeinkommen” (in italiano: “Reddito di Base”) di Daniel Häni e Enno Schmidt, in cui si parla di reddito di base (o RdB) promosso come rimborso IVA, dove per IVA si intende un’unica tassa escludente ogni altra tassa, e a conti fatti escludente anche se stessa in quanto pareggiata dal RdB stesso, erogato appunto come quota esentasse a copertura di bisogni essenziali dell’individuo. La cosa più interessante è che il RdB, proposto nel film dagli studiosi svizzeri, austriaci e tedeschi, non è qualcosa da finanziare, né un gesto di carità, né un sussidio, e nemmeno un pretesto per conformarsi all’attuale decadente sistema politico mondiale. In Italia oltretutto con esso si attuerebbe scientificamente il principio di progressività (art. 53 della Costituzione), da sempre violato in quanto col meccanismo delle tasse scaricate sui prezzi sono in definitiva i poveri a pagarne di più. Trascrivo qui un “pezzo” di film: “[…] il futurologo Jeremy Rifkin nel 1995 prospettò il livello che l’abbandono della piena occupazione potrebbe raggiungere: ‘Nel 2050 probabilmente sarà sufficiente un 5% della popolazione per gestire e mantenere operanti le industrie tradizionali. Fattorie, fabbriche e uffici con pochissimi dipendenti saranno la regola in tutti i paesi’. Le previsioni di Rifkin sono discutibili, ma non sono campate per aria: nel 1982 gli Stati Uniti produssero 75 milioni di tonnellate di acciaio, grazie al lavoro di 300.000 persone. 20 anni più tardi ne produssero 100 milioni di tonnellate - con soltanto un quarto dei lavoratori rispetto a prima. Contemporaneamente sorsero anche nuovi impieghi. Forse qualche centinaio - nella consulenza, o nel settore high-tech. Una dinamica che non riguarda solo la produzione classica, ma anche molti ambiti del settore dei servizi. La Net-Bank ne è un esempio estremo, che però rende evidente la tendenza. Essa richiede soltanto un decimo dei collaboratori, a parità di depositi, rispetto ad una banca convenzionale. Questo processo non è limitato ai paesi industrializzati di un tempo. In tutto il mondo infatti, il numero degli occupati cala rispetto alla produttività”.
 
Occorre quindi che gli uomini - liberati dal lavoro - possano avere la libertà di sviluppare al massimo la creatività necessaria per affrontare le esigenze di un mondo nuovo. Il lavorare altro non è che la continuazione in età adulta del giocare infantile. L’individuo opterà sempre più di essere per lavorare e non viceversa.

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