La strategia di Israele dopo nove mesi di guerra
Chiunque abbia fatto saltare in aria il leader di Hamas aveva la certezza di innalzare pericolosamente l'asticella dello scontro tra Iran e Israele una seconda volta. Prima c'era stato l'attacco alla sede distaccata del consolato iraniano in Iraq, adesso un attacco diretto a Teheran.
Cercare di capire l'azzardo (presumibilmente israeliano) non è così semplice.
La questione non è se Haniyeh fosse o meno un mediatore e che, di conseguenza, il suo omicidio sia stato un attentato a una possibile pacificazione dell’area. Chi lo sostiene dice solo una mezza verità o forse anche meno di mezza. In primo luogo finge di non ricordarlo mentre guardava soddisfatto i video dei suoi tagliagole all'opera mentre massacravano civili israeliani inermi il 7 ottobre e in secondo luogo finge di non sapere che l’attentato è stato sì un colpo ad Hamas – che non è certo una novità – ma è stato principalmente uno schiaffo sonoro e vistoso al regime degli ayatollah che lo stava ospitando. Ed è questo che conta.
La questione quindi è il livello di pericolo al quale, per la seconda volta, Israele viene sottoposto con un’operazione che sembra azzardata. Livello che un analista americano, intervistato dalla CNN, ha definito "straordinariamente pericoloso" (anche perché sembra che la Russia stia fornendo sostegno militare all'Iran ricambiando il favore della fornitura di droni iraniani usati poi contro l'Ucraina).
Proprio perché è la seconda volta che Israele colpisce obiettivi iraniani (dopo che l’Iran l’ha fatto molte volte, ma solo attraverso i suoi alleati in Libano, a Gaza, in Yemen o in Siria) c’è da chiedersi perché il governo israeliano l’abbia fatto.
E l’unica risposta sensata (dopo quella banale dei polemisti di casa nostra: lo fanno perché sono brutti, sporchi e cattivi da sempre) è che Israele sembra aver deciso di testare più a fondo le capacità offensive della repubblica islamica.
In questo senso l'attentato che ha eliminato Ismail Haniyeh può essere definito un "cigno nero", in gergo un'azione del tutto sorprendente e inaspettato perché considerato non plausibile, che però, con il senno di poi, risulta essere prevedibile (un po' come l'invasione russa dell'Ucraina che anche noti esperti di geopolitica consideravano del tutto implausibili ancora il giorno prima che l'invasione avvenisse). Prevedibile e dalle conseguenze molto rilevanti.
Dopo la reazione forte, ma decisamente fallimentare, seguita all’attacco che fece fuori il generale dei pasdaran Mohamad Reza Zahedi (decine di missili, razzi e droni quasi tutti intercettati con l’aiuto di forze aeree occidentali e di paesi arabi e una sola vittima, una bambina beduina ferita nel sud di Israele) il secondo attentato alza il tiro perché non colpisce una sede diplomatica all’estero, ma direttamente il suolo iraniano, anche se l’obiettivo umano dello strike non lo era.
La provocazione quindi non è aver colpito il leader di Hamas, prassi abbastanza usuale per Israele, ma averlo fatto in Iran. E adesso il regime promette tuoni, fulmini e saette per vendicarsi dell’onta subita. Ovvio che non possa fare altro e la reazione questa volta dovrà essere ben più forte della prima proprio perché la provocazione è stata ben più forte.
Se non sarà fallimentare vorrà dire che l’attacco sarà stato tale da bucare l’apparato difensivo israeliano e dei suoi alleati. E questo metterà in chiaro anche a chi avesse ancora dubbi che Israele corre un pericolo reale di sopravvivenza, tantopiù se il programma iraniano sul nucleare militare andrà avanti ancora. Se ci saranno riusciti una volta potranno riprovarci, con più fiducia e baldanza, una volta successiva. E poi ancora.
Se invece sarà un altro fallimento, dimostrando agli occhi degli analisti che l’Iran non è dopotutto niente più che una “tigre di carta”, allora liquidare una volta per tutte i suoi agguerriti alleati libanesi (quell’Hezbollah che bersaglia Israele dal giorno dopo il massacro del 7 ottobre in supporto all’azione di Hamas) potrebbe diventare un obiettivo appetibile per Israele. Hezbollah ha un notevole apparato missilistico e già nel 2006 l’esercito israeliano ebbe problemi notevoli ad avanzare in territorio libanese. Se l’appoggio iraniano si rivelasse consistente per Israele sarebbe poco consigliato rispondere alzando troppo il tiro su Hezbollah dopo la strage di ragazzini drusi del Golan.
Il governo di Gerusalemme d'altra parte si pone un problema fondamentale che si sviluppa su due direttrici collegate: elezioni americane e questione del nucleare iraniano che rappresenta l'incubo peggiore per Israele. Con Trump alla Casa bianca, Netanyahu si sentirebbe sicuro per la propria situazione personale e di governo, e contemporaneamente sarebbe piuttosto certo di un pugno duro americano sull'Iran. E la capacità di deterrenza di Israele sarebbe salvaguardata. Adesso che non c'è più Biden, ma Kamala Harris la rielezione di Trump non è più così altamente probabile come prima e dubbi si potrebbero forse avanzare sulla fermezza americana in merito alla questione del nucleare degli ayatollah.
Non è del tutto incomprensibile che Israele voglia quindi anticipare i tempi di verificare cosa comporterebbe davvero, per le proprie forze armate e per la propria popolazione oltre che per la tenuta delle sue alleanze, uno scontro diretto con Teheran o con i suoi proxi libanesi, dopo che ha ridotto la forza militare di Hamas ai minimi storici.
Lontana, sullo sfondo, ma decisamente passata in secondo piano rispetto al pericolo di un allargamento su scala regionale del conflitto, giace dimenticata l'irrisolta questione palestinese. Ma non sarà il governo di estrema destra guidato da Netanyahu, non Hamas e nemmeno le sentenze dei giudici dell'Aja a risolverla. Almeno fino a che non sarà "risolto" in qualche modo il contenzioso fra lo stato ebraico e il regime degli ayatollah.
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