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"La storia siamo noi" e voi non siete nulla

Doverosissimo è dedicare una puntata di un programma ritenuto “di divulgazione storica” sulla strage di via D’Amelio. Un po’ meno lo è adulterarne, o quanto meno omettere all’acqua fresca, il contenuto.

L’altra sera è andata in onda una puntata de “La storia siamo noi” dedicata alla morte di Borsellino e dei 5 agenti della sua scorta. Col suo tipico fare urticante (parere personale), Minoli ha cercato di sviscerarci l’intimo dei protagonisti, ahiloro, in quel maledetto 19 Luglio. D’accordo. Non vorremmo passare per insensibili, né per facili urlatori (in fondo, probabilmente, potremmo già esserlo) ma la vicenda pare passare sottobanco su praticamente tutti i mezzi d’informazione. Io sto cercando di sovvertire questo monopolio del vuoto.

Minoli sembrava voler riempire la vicenda con dogmi di comodo. La puntata parte, e segue la linea della cronistoria farcita d’interviste toccanti, spezzoni televisivi d’epoca ed interventi a voce sostenuta del conduttore, al solito corroborati dall’enfatizzazione grafica delle parole-chiave. Dolore, tragedia, mafia etc... Così, per rendervene conto, dal sito della trasmissione:

"[...]È il 1980, l’anno in cui Cosa nostra cambia volto: ai vecchi uomini d’onore si sostituiscono i sanguinari corleonesi capitanati da Totò Riina".
E già mi pare una gara di Giochi Senza Frontiere, messa così, o la presentazione della ciurma di Jack Sparrow. Ma va bè, estetismi.

"[...]La scia di sangue lasciata da Cosa nostra è sempre più lunga. Prima di La Torre e Dalla Chiesa altri uomini sono caduti sulla strada della giustizia".
E su Dalla Chiesa qualcuno (magari qualche ectoplasma) potrebbe dirla diversamente. Avanti...

"19 luglio 1992: la strage di via D’Amelio.
Cosa nostra decide che è arrivato il turno di Borsellino. [...]La mattina del 19 luglio del 1992 Paolo Borsellino è a Villagrazia di Carini, località in cui la sua famiglia passa le vacanze nella casa al mare. Il magistrato decide però di rientrare a Palermo per fare visita alla madre. A Villagrazia, di guardia, c’è Biondino che controlla i suoi spostamenti. Il mafioso avverte i killer già posizionati in via D’Amelio di tenersi pronti. “Mia madre era in casa da sola e fece in tempo a sentire le sirene delle macchine che si avvicinavano e poi scoppiò il finimondo”, ricorda Rita Borsellino. Antonino Caponnetto, accorso sul luogo, riesce a dire solo: “È finito tutto”. Insieme a Paolo Borsellino vengono assassinati gli agenti di scorta Agostino Catalano, Walter Eddie Cusina, Vincenzo Li Muli, Emanuela Loi e Claudio Traina. Nel corso dei vari processi fino ad oggi celebrati sono stati condannati in via definitiva 47 persone, 25 delle quali all’ergastolo. Tra queste: Salvatore Riina, Pietro Aglieri, Salvatore Biondino, Giuseppe Graviano, Carlo Greco e Salvatore Profeta". Mmm... e poi?

Poi sul sito, nient’altro (oltre alla puntata). Colpisce, ad una seconda occhiata, l’assenza della parola Andreotti nel parlare di mafia e maxiprocessi (dato che, ricordo, la sua compartecipazione –secondo sentenza– sarebbe accertata almeno fino al 1980). Ma ancora. La scheda si chiama “La storia del magistrato ucciso dalla mafia“. In un finale struggente, vengono passate in rassegna foto e parole. Un voce narrante legge. Riassunto: sono state condannate quasi 50 persone. La verità definitiva, però, non è stata ancora scritta. La procura di Caltanissetta sta indagando sui cosiddetti “mandanti occulti” per capire chi fu davvero il mandante dell’uccisione di Paolo Borsellino. Stop.

Forse un po’ più di tatto e possibilismo non avrebbero rovinato niente. O magari, molto più semplicemente, una razione a scelta di giornalismo d’inchiesta (o giornalismo e basta, nel dare notizia su tutto ciò che concerne ciò di cui si parla). Anche perché, sull’altro versante, quello della verità –direi– di Stato, si è data per scontata la tesi classica dell’uccisione esclusivamente mafiosa. E l’agenda? Citata e decontestualizzata. Il perché di un atto tanto brutale? Sapeva troppo sulla morte dell’amico e collega Falcone.

No, signori. Non avete certezze, ma giornalisti siete. Quanto emerso è ancora poco e da approcciare con cautela, ma implica tanto, troppo da non poter essere visto. E se non ci si vuole esporre, non si ammicca allo status quo. In onore, se non alla professione (in Rai è ormai bestemmia), a vittime e lavoro delle procure.

Capisco che la storia siate voi, ma lo siete quanto le persone che, nei video della puntata (e senza commentarli), fischiavano le rappresentanze dello Stato e chiedevano giustizia inveendo, forse a ragione, in direzione Roma.

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