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 Home page > Attualità > Cultura > La risposta è sempre dentro di noi. Peccato sia sbagliata, Corrida (...)

La risposta è sempre dentro di noi. Peccato sia sbagliata, Corrida #25

Sarà passato un giorno, un mese o un anno.
Non ne avevo la più pallida idea, navigavo nelle onde mentali assieme ai miei compagni immaginari, passando i giorni e le notti, indistinti, a fotografare nuove scene, nuove avventure.
Poi una notte, e che era buio pesto ne fui sicuro solamente dopo, una voce.

Quando sei abituato alla solitudine, alla cecità del reale, stenti a cogliere la distinzione tra l’onirico e il tnagibile. I suoni si mescolano e si confondono, creando un unico cocktail vitale, che goccia a goccia, come una flebo, garantisce la sopravvivenza. Per cui non eci caso alla voce, o forse le risposi con il pensiero, e magari accompagnando la visione con qualche gesto improvvisato.
Non ricordo a cosa pensavo, a quale avventura o grigiore.

Tuttavia fu proprio come non uscire dal sogno-realtà, fu come non varcare nessuna soglia, e per questo sembrò tutto normale: Amalia era lì. Vestita di qualche straccio di un colore vicino al rosa, mi osservava da dietro la finestrella, cercando silenziosamente di catturare la mia attenzione. I suoi suoni onomatopeici di richiamo avevano su di me la stessa valenza di un fischio di vento o di un fruscire sommesso di rami.
Riuscì a catturare la mia attenzione tirandomi un sassolino sulla nuca. Mi girai. La vidi. E non riuscii a varcare la soglia, fu una cosa tremendamente normale, forse perchè lei era sempre nei miei pensieri, nei miei sogni, nella finzione.
La salutai, come si saluta il barista, con quella mezza espressione di conoscenza latente e disimpegno formale.
Lei, novella Giulietta sul balcone, mi guardava, stupita della mia reazione, ma la sua femminea capacità di controllare gli veneti non le fece smarrire l’attimo giusto, capì che si doveva muovere se voleva liberarmi.
Così mi tese una mano ed una corda, che afferrai senza entusiasmo, lasciandomi trasportare da un orizzonte onirico.


Furono pochi passi di arrampicata e non oso spiegarmi come fu che nessuno si accorse di nulla dall’interno. Ed ero fuori. Lontano da Claudio, Fernando, Langlois e gli altri. Hermano se lo avesse saputo è probabile che avrebbe dato in escandescenza: come tu sì ed io no?

Non c’era molto tempo per le domande, corsi dietro a lei, e passo dopo passo, man mano che i miei talloni rimbalzavano sul duro terreno notturno, riprendevo coscienza, capivo il tempo, realizzavo cosa stava accadendo. Iniziai anche a percepire altre persone assieme a noi, ci correvano ai lati, quasi per proteggerci.
Non fu necessario correre troppo, tra la sterpaglia un carro amico ci stava aspettando, pronto per consegnarci alla mercè del destino, tra la libertà e un’altra accusa, più grave sicuramente.

Il carro mosse i suoi passi, nel silenzio assoluto, ma senza troppa timidezza di essere ascoltato, non era un rumore strano, dopotutto, nonostante il coprifuoco.
La vidi in penombra appena evidenziata da qualche bagliore di luna, nei suoi tratti perfetti e gentili, nel suo sorriso smagliante. Seguii le linee del suo corpo in ogni millimetro, le pieghe della pelle, della dolce muscolatura, e sentivo il suo sguardo posarsi dolcemente sulle mie spalle, quasi a rassicurarmi.

Era tornata per me, mi aveva salvato, pensavo. Tuttavia sentivo nell’aria un qualche dubbio farsi strada, ascoltavo la coscienza pronunciare parole lontane, quasi indistinguibili.
La risposta è sempre dentro di noi, mi dicevo.

"Ti presento Francois, è uno dei nostri" disse.

La risposta è sempre dentro di noi.
Peccato che spesso sia sbagliata.

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