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La riforma Alfano della fase requirente del processo penale

Siamo tutti consapevoli che, fra le Istituzioni che meglio funzionano, sono da inserire a pieno titolo le forze dell’ordine; dai carabinieri, ai poliziotti, ai finanzieri e così via. Il loro impegno nella lotta alla criminalità organizzata di ogni genere e tipo è quotidiano e, purtroppo, sovente devono mettere a repentaglio anche la loro incolumità personale. Sono meno popolari forze armate e servizi segreti, ma anche essi lo stanno diventando grazie alle missioni di peace-keeping portate avanti in oggettive condizioni di pericolo.

Ciò premesso, non si può tacere sull’ipotesi di riforma della fase requirente del processo penale avanzata dal ministro Alfano, che prevede il passaggio dalla gestione delle indagini alle forze dell’ordine, limitando il ruolo dei Pubblici Ministeri a quello di “avvocati dell’accusa”. Infatti da essa, se attuata, deriverebbero danni esiziali alla democrazia del nostro Paese e, per questo motivo, il vostro cronista non può astenersi dal parlarne.

Innanzitutto va rilevato che, secondo il testo proposto, verrebbe mantenuto allo Stato il monopolio dell’azione penale. Non siamo, dunque, in alcun modo vicini alle regole della Common law anglosassone, dove la parte lesa può diventare protagonista in prima persona dell’accusa utilizzando anche, se lo ritiene opportuno, degli investigatori privati. Insomma, lo Stato rimane sostanzialmente il monopolista dell’azione penale, la cui gestione, però, passa in buona parte dalla Magistratura alle forze dell’ordine, ossia all’esecutivo.

A questo punto siamo un popolo abbastanza scaltro per considerare cosa ha fatto l’esecutivo in talune situazioni, diciamo così, particolarmente scabrose. Ad esempio durante quelli che sono ormai passati alla storia come gli anni di piombo. Il lettore ricorderà certamente quella che fu definita la strategia della tensione, quando strutture afferenti i nostri servizi segreti, invece di preoccuparsi della sicurezza dello Stato, ritennero opportuno influire sul nostro sistema politico democratico, rendendo instabile la democrazia. Ovviamente agirono senza informare in alcun modo la Magistratura e, quanto alla pubblica opinione, forse è ancora oggi lontana dal conoscere l’intera verità.

Vediamo, poi, cosa ha fatto l’esecutivo nella lotta alla mafia dei vari Ciancimino, Riina, Provenzano. Ad un certo punto si è messo a trattare con i mafiosi, giungendo persino ad alleviarli dalle sofferenze del carcere duro previsto dal 41 bis; e lo ha fatto senza informare l’Ufficio della Procura di Palermo, sino a che non è giunto a guidarlo il dottor Caselli. Se il figlio di don Vito non si fosse messo in testa di farlo sapere a tutti, noi cittadini, di questa cosa, con ogni probabilità saremmo ancora all’oscuro.

Certamente non bisogna con questo sminuire i tantissimi meriti dell’esecutivo nella lotta contro fenomeni di illegalità grave; però è un dato di fatto che talora ha agito all’insaputa della Magistratura Inquirente, pur avendo l’obbligo di tenerla pienamente informata delle sue iniziative, ed ancor più all’insaputa della pubblica opinione. Qualche volta è persino intervenuto in favore di una fantomatica nipote del presidente dell’Egitto. Figuriamoci cosa potrebbe accadere se la fase requirente del processo penale fosse sottratta dalla gestione della Magistratura. In tal caso la stessa democrazia nel nostro Paese potrebbe ridursi ad una mera parvenza e non ci servirebbero a nulla neanche le elezioni.

Così si esprime Amartya Sen in un passo del suo saggio Le radici della democrazia: «Il significato e il valore delle elezioni dipendono in modo sostanziale dalla possibilità di una discussione pubblica aperta. Le elezioni da sole possono essere disgraziatamente inadeguate, come è stato più volte dimostrato dalle stupefacenti vittorie elettorali dei tiranni al potere nei regimi autoritari, dall’Unione Sovietica fino all’Iraq di Saddam Hussein. Il problema, in questi casi, sta non soltanto nelle pressioni esercitate sugli elettori al momento stesso del voto, ma nel modo in cui una discussione pubblica sui fallimenti e le disonestà del regime è messa a tacere dalla censura (o dal monopolio dei mezzi di informazione), dalla soppressione dell’opposizione politica e dalla violazione dei diritti civili e delle libertà politiche fondamentali».

A maggior ragione oggi, ossia nel giorno in cui questi problemi sono portati all’attenzione del Capo dello Stato dall’Associazione di categoria dei magistrati, non si può proprio tacere.

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