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La parabola del Ttip

“Il trattato di libero scambio tra Unione europea e Stati Uniti d’America è saltato non per colpa della mozzarella, degli Ogm o del buy American che costringe chi partecipa alle gare d’appalto negli Usa ad utilizzare risorse locali per almeno il 50 per cento. No, la responsabilità è del popolo”, ha osservato epigrafico Stefano Cingolani qualche giorno fa su formiche.net.

Le elezioni oramai alle porte non solo negli States ma anche in Germania e Francia hanno suggerito infatti a Donald Trump di ergersi a paladino del posto di lavoro degli operai della Ford nel Michigan, alla Clinton di abborracciare una virata protezionista (dopo il sostegno prima al Nafta e poi al Trattato Trans-Pacifico) ed a Hollande e alla Merkel di schierarsi, rispettivamente, a difesa dei propri agricoltori e del “complesso finanziario-industriale […] perno del Modell Deutschland”.

Settori economici, così, la cui redditività è garantita dalle muraglie doganali, rischiano di far prevalere nell’agenda politica i propri interessi, marginalizzando quelli dei comparti richiedenti una maggiore libertà dei commerci e soprattutto dei più, vale a dire l’universo dei consumatori.

Ancora una volta, allora, la triste parabola che sta disegnando il Trattato transatlantico sul commercio e gli investimenti sembra confermare la validità della “Teoria della scelta pubblica” di James M. Buchanan e Gordon Tullock, formulata negli anni Sessanta del secolo scorso sulla scorta degli studi dei nostrani Pareto, de Viti de Marco e Pantaleoni.

I consumatori sono maggioranza, da una parte e dall’altra dell’Atlantico, e votano. Perché allora sembrano condizionare meno del blocco protezionista le leadership politiche?

Perché, ci dice quella teoria, la maggiore influenza politica dei settori protezionisti è da addebitare tra l’altro al carattere di bene “pubblico” attribuibile alla politica commerciale. I beneficiari di una politica economica liberoscambista, infatti, non possono essere esclusi da tali benefici anche se non hanno concorso al costo necessario per conseguire quella politica.

Ciò spinge coloro che non sono interessati all’adozione di politiche commerciali restrittive, vale a dire la vastissima platea dei consumatori non impiegati nei settori favoriti dal protezionismo, ad assumere un comportamento da free rider, a non impegnarsi cioè in una esplicita e dispendiosa azione di pressione nei confronti delle pubbliche autorità affinché assumano misure liberoscambiste, confidando che altri lo faranno al loro posto. Viceversa gli ambienti interessati a una politica protezionista, consapevoli della loro più esigua forza numerica, svolgono una più penetrante azione lobbistica nei confronti del potere politico. “L’incentivo al free riding – scriveva l’economista Paolo Guerrieri fin dagli anni Ottanta – sarà tanto maggiore […] quanto più alto è il numero degli attori coinvolti e, di conseguenza, quanto più dispersi ed esigui i benefici netti individuali legati alla produzione del bene pubblico”.

Se poi quell’azione lobbistica ricorre a pulsioni istintive, a riflessi condizionati ed a tic irrazionali, ogni argine alla marea montante protezionista è vano.

“Reciprocità, reciprocità!”; questa è difatti una delle ultime bandiere brandite dagli avversari del Ttip, accusato di violare quel principio a tutto beneficio delle multinazionali a stelle e strisce.

All’alba del nuovo millennio, l’economista indiano Jagdish Bhagwati (sostenitore, da liberoscambista radicale quale è, del multilateralismo e quindi critico nei confronti del Ttip, tacciato, come qualsiasi trattato “regionale”, di essere troppo poco coraggioso) respingeva, perché irrazionale, la tesi della reciprocità, tesi però fortemente radicata nel sentire comune in quanto frutto di quell’“ossessione della ‘fairness’, dell’equità” che fa ritenere che se il mercato di un Paese è aperto a quello di un altro che invece non lo è, ciò è ingiusto, sleale e quindi da evitare. Ma se uno Stato decide di chiudere il proprio mercato ai prodotti di un altro, quest’ultimo, si domandava Bhagwati, perché dovrebbe impoverirsi ulteriormente rinunciando ad importare i prodotti del primo?; “se qualcun altro getta massi nel proprio porto, non vi è alcuna ragione per fare la stessa cosa nel nostro”.

Ma anche questa immagine, a dimostrazione di come pulsioni e umori di cui sopra originassero perlomeno a partire dalla ottocentesca formazione degli Stati-nazione, rinvia chiaramente a quella evocata da Francesco Ferrara, antesignano del liberismo italiano che, interrogandosi sull’irrazionalità delle politiche di ritorsione che inducevano un Paese a rispondere con misure protezionistiche agli alti dazi posti dagli altri Stati, affermava che “se un nemico ci recide il braccio sinistro, nessun chirurgo vorrà consigliare di reciderci il destro”.

Il protezionismo era così l’ultimo, velenoso frutto di un nazionalismo parossistico ed esasperato: “Non vi ha dogane, non si può idearne, se non si parte dal principio implicito che l’umana famiglia deve essere, o è divisa in famiglie più piccole”. Ed ancora: “Il sistema doganale procede sempre così. La nazione, il paese, è la sua pietra angolare; gli individui che la compongono sono unificati in un corpo; le differenze o gli interessi tra uomo ed uomo spariscono; ciò ch’esso intende di calcolare è la differenza o l’interesse tra corpo e corpo, tra popolo e popolo. La sua figura retorica si riduce a copiare sulle nazioni ciò che le leggi naturali han fatto sull’individuo”. Finché la nazionalità non fosse stata “che un puro concetto implicito, sarebbe tollerabile, andrò fino a dire che qualche volta potrebbe esser vero. Ma il sistema ha fatto di più: ha celebrato una strana apoteosi al principio di nazionalità, gli ha subordinato tutta l’umana esistenza, gli ha immolato l’avvenire, ne ha creato un destino. Le nazionalità sono un fatto, ed esso ne ha formato uno scopo; sono una necessità, e ne ha formato un bene; sono un accidente e ne ha formato l’essenza dell’uman genere; sono l’ostacolo ed ha immaginato di costituirne il progresso”.

(Foto: Global Justice Now/Flickr)

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