• AgoraVox su Twitter
  • RSS
  • Agoravox Mobile

 Home page > Attualità > Società > La lezione di Mourinho, anche ai non interisti

La lezione di Mourinho, anche ai non interisti

La lezione di Mourinho, anche ai non interisti

Ritratto quello che ho detto. Josè Mourinho ha deciso veramente di andarsene. La sua toccata e fuga è durata solo due anni, sufficienti per fare dell’Inter, quella squadra che Moratti ha assemblato a suon di milioni per anni, ma alla quale non era ancor riuscito a dare una fisionomia completa, come un puzzle mal assortito dove i pezzi non si incastravano l’un l’altro per farne un’immagine organica.

Non ho mai amato Mourinho, per ovvi motivi di fede calcistica, ma non solo. Ora che se ne va mancherà anche a me, se non altro per gufargli contro.

I motivi veri li sa solo lui, ma dobbiamo credere a quello che ha detto, fino a prova contraria. Certo, fa pensare che un lavoratore portoghese venga in Italia a sistemare le cose per le quali è pagato, e che poi - prima ancora della scadenza del contratto di lavoro - se ne scappi perché, come ha detto, “non mi sento a casa, non sono allegro, non mi sento amato”.

La lezione che Mou ci lascia è almeno triplice.

Secondo il costume italico un leader se ne va solo a pedate nel sedere, e già è molto. Solo pochi hanno avuto nella storia recente il coraggio e l’onestà di lasciare la poltrona: Zaccagnini, Prodi, Veltroni, Scajola. Tutti dopo un rovescio, e non tutti addossandosi le colpe della sconfitta. Molti, troppi, rimangono nonostante il furor di popolo, gli insuccessi e l’inesorabile età avanzata.

Mou ha fatto la sua scelta al massimo della gloria, nel pieno della maturità giovanile, senza essere responsabile di alcunché di riprovevole.

Non solo, ma se n’è andato dopo aver concluso il suo lavoro, e positivamente. Ricorda, per questo aspetto, il primo Schumacher e pochi altri campioni. E’ la mentalità del vincitore, quella di chi sa di valere, di aver mostrato sul campo i risultati della propria condotta, pronto a ripetersi laddove sia chiamato a collaborare. Non è la mentalità del mercenario (anche se l’aspetto economico non è irrilevante) ma dell’eroe, del Garibaldi che passa la mano dopo aver compiuto l’impresa, senza "obbedisco" ma di sua spontanea volontà.

E c’è un terzo aspetto altrettanto importante che fa riflettere. Nelle sue peregrinazioni da un club all’altro è la prima volta che l’allenatore se ne va perché non si sente a casa sua. "Se davvero a Mourinho - scrive Enrico Franceschini - non piacesse qualcosa dell’Italia, cosa ci sarebbe poi di tanto strano" ed aggiunge: "Uno che guarda l’Italia da fuori, come sono io, può immaginare che a Mourinho l’Italia non piaccia anche per altre ragioni, per ragioni che possono sfuggire a chi in Italia ci vive da sempre".

No, non ci sfuggono queste ragioni, ed è per questo che molte braccia e molti cervelli giovani se ne vanno dal Belpaese. L’Italia è il bengodi solo per i disperati del terzo mondo: spesso per farsi strada nella vita, per un futuro meno nero, per realizzare un progetto è necessario andarsene. Personalmente ne so qualcosa, e condivido in pieno il proposito di mio figlio di non tornare più.

Lasciare un commento

Per commentare registrati al sito in alto a destra di questa pagina

Se non sei registrato puoi farlo qui


Sostieni la Fondazione AgoraVox







Palmares