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La gestione pubblica dell’acqua: sprechi e alte tariffe

Sarebbe interessante se i fautori incondizionati dell’acqua pubblica, soprattutto a sinistra, analizzassero, senza specchi ideologici, la situazione quasi disastrosa in cui versa la gestione del servizio idrico in Italia. Scoprirebbero, tanto per cambiare, una giungla di sprechi e di prezzi, spesso a danno del cittadino e della qualità del servizio.

Alcuni esempi illuminanti li ha segnalati Sergio Rizzo sul Corsera il 9 febbraio di quest’anno: a Milano le tariffe sono appena un quarto di Terni, che sono poco più alte di Latina.
 
Nel comune laziale la società Acqualatina è gestita però da un socio privato, la francese Veolia con il 49% delle azioni rappresentata dall’amministratore delegato Jean Michel Romano, ma con un presidente-senatore, il famoso Claudio Fazzone (Pdl). Ebbene nel 2008 l’Acqualatina ha perso 4,4 milioni nonostante le sue tariffe siano parecchio al di sopra della media nazionale...

Ad Agrigento la situazione non è migliore, anzi. Con 400 euro l’anno a famiglia si pagano le tariffe più alte d’Italia, a fronte di un servizio davvero inqualificabile (vi ha dedicato un servizio Presa Diretta di Riccardo Iacona). Da tre anni la distribuzione dell’acqua è gestita dalla Girgenti, una società privata ma solo di nome, poiché esprime gli azionisti di minoranza ma è controllata al 56,5% dalla Acoset spa, società dei Comuni catanesi e dalla Voltano spa, di proprietà dei Comuni agrigentini.
 
Questo dimostra che in Italia esiste già una gestione mista pubblico-privato del servizio idrico, anche se con risultati disastrosi nel Lazio e in Sicilia.
D’altra parte, ove presenziano solo gli enti locali, non mancano le inefficienze e numerosi disservizi.

L’Acquedotto pugliese, 20 mila km di rete (il più grande in Europa), in tre anni è riuscito a recuperare 40 milioni di metri cubi di perdite, che sarebbero scese dal 37,7% al 35%. Se aggiungiamo però le perdite amministrative (sempre in calo, dal 12,8% all’11,8%) il buco economico è vicino al 47%.

Questo al di là delle religiose dichiarazioni del governatore Nichi Vendola, "privatizzare l’acqua è una bestemmia in chiesa". Forse è meglio se i tubi rotti, gli allacci abusivi e gli enormi sprechi, li continuasse a fare il pubblico.
 
Basta considerare che ogni anno, secondo un documento della Confartigianato, il 30,1% dell’acqua in rete non arriva ai rubinetti, mentre, se vogliamo azzardare paragoni in Europa, in Germania le perdite non superano il 7%.

Tutto questo per ribadire che liberalizzare il servizio idrico nazionale, affidandone la gestione anche ai privati e aprendo il mercato, è un principio che non può essere aprioristicamente respinto sull’altare di una sacra "gestione pubblica", come se questa si rivelasse migliore e più sicura.

E’ necessario prima di tutto garantire adeguati controlli delle gare d’appalto con la supervisione di un Authority indipendente, regole certe e punizioni per chi effettua un disservizio, ma è sbagliato anteporre uno stop preventivo all’ingresso di aziende private, frutto di un pregiudizio ideologico che si contrappone a qualsiasi ipotesi di cambiamento e che condanna da anni l’Italia ad un sostanziale immobilismo economico e produttivo.

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