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La formazione continua è un’opportunità di crescita sui mercati

Il sistema d'impresa italiano si sta finalmente accorgendo che la formazione continua può costituire una spinta decisiva per lo sviluppo economico e per la competitività sui mercati. Acquisire know how non significa soltanto aumentare il capitale di conoscenze, ma utilizzare queste ultime come elemento determinate per migliorare, modificare e innovare l'organizzazione, i processi e i prodotti.

Nel corso degli ultimi anni, nell'articolato e poliedrico sistema della piccola impresa italiana, è andata maturando la consapevolezza che la formazione e la ricerca debbano ricoprire una centralità decisiva nell'ambito delle normali attività produttive, poiché strategiche per perseguire e sostenere, nel lungo periodo, una crescita stabile. Il valore sostanziale delle imprese, infatti, è oggi costituito dalla qualificazione e dalla competenza del capitale umano, che, al tempo stesso, è divenuto il loro patrimonio più prezioso, poiché già oggi è connotato da un discreto livello medio di scolarizzazione, tale, comunque, da favorire una formazione adeguata ai fabbisogni e agli obiettivi aziendali e legata ai processi di innovazione tecnologica ed organizzativa interni alle aziende. 

D’altra parte, il mutamento di modello economico in atto pone oggi la gestione del sapere non solo come una potenzialità di superiore capacità competitiva delle imprese sui mercati, ma anche come un terreno specifico di possibile relazione virtuosa fra lavoratori e imprese, incardinata sulle logiche della bilateralità e della condivisione di scelte e di obiettivi orientati alla crescita e che, in ragione di tali motivi, trova nella formazione continua, il proprio terreno privilegiato, il proprio ambito prioritario.

Ciò è particolarmente vero in un paese come il nostro, dove esiste un sistema produttivo peculiare e profondamente diverso da quello dei principali paesi europei. Infatti, l'apporto in termini di numero di addetti delle PMI italiane e soprattutto l'incidenza di queste ultime sul PIL non ha paragoni con il resto del continente. Basti pensare che più del 62% del fatturato industriale italiano è determinato da imprese con meno di 250 dipendenti e solo il 38% da imprese con un numero di occupati superiore, mentre in Europa queste ultime sviluppano fatturati compresi fra il 62 e il 71% del totale. In termini percentuali, il numero di imprese con più di 250 dipendenti in Italia è pari allo 0,5% del totale, in termini assoluti circa 19 mila a fronte di oltre 3,8 milioni di PMI. In termini quantitativi assoluti, il fatturato medio delle PMI italiane era, prima della crisi, di 6,5 milioni di euro, ma solo il 13,5% aveva fatturati superiori ai 5 milioni di euro, mentre ben il 74% fatturava meno di 2 milioni di euro (fonti: Unioncamere/Istituto Tagliacarne).

È chiaro che per il sistema industriale delle PMI, i cui capisaldi "strutturali" (l'organizzazione territoriale in distretti; il clima di cooperazione/competizione interno ai distretti stessi; le innovazioni incrementali, ossia il piccolo, ma costante miglioramento dei prodotti, senza tuttavia vera ricerca) erano già stati messi a dura prova dai processi di globalizzazione dei mercati, il profondo e difficile periodo di crisi vissuto negli ultimi due anni ha costituito un ulteriore elemento di difficoltà che ha messo a nudo tutte le debolezze e le arretratezze del nostro sistema, determinando una forte perdita di competitività delle imprese sui mercati internazionali. D'altra parte, questa stessa crisi ha fatto emergere elementi di novità, che testimoniano un'insospettabile vitalità del nostro sistema economico, fra cui proprio la consapevolezza, cui si è fatto cenno in apertura, della centralità che la formazione deve occupare, anche e soprattutto nelle PMI, nell'ambito delle normali attività produttive e delle dinamiche di mercato.

La determinazione, allora, di condizioni favorevoli ad un significativo rafforzamento dell’investimento in formazione, delle modalità di accesso ad essa e della sua “qualità” intrinseca diviene, allora, centrale. È di vitale importanza, infatti, lo sviluppo di un’adeguata capacità di analisi dei fabbisogni, di progettazione, di valutazione e di organizzazione dei processi formativi, capace sia di determinare dinamiche innovative, sia di coinvolgere sui singoli territori le parti sociali e le istituzioni, in modo da evitare squilibri e diseconomie fra le varie aree del paese.

Pur pagando lo scotto di un grave ritardo rispetto al resto dei paesi europei e pur con alcuni squilibri, tuttavia nell’ultimo quinquennio il quadro della formazione continua in Italia è sensibilmente migliorato. Da un lato, infatti, le dinamiche di accesso alla formazione e le pratiche formative si stanno progressivamente adeguando agli standard internazionali, così come la spesa che, seppur ancora lontana dalle medie europee, è comunque crescente. Dall’altro, alcune innovazioni, sia sistemiche che di contenuto, sono intervenute a modernizzare repentinamente l’intero settore. L’esperienza dei fondi interprofessionali, ad esempio, per quanto ancora giovane, sta comunque apportando dinamismo e innovazione, contribuendo in maniera determinante alla diffusione di una nuova concezione della formazione continua, utile a generare quel “clima” che in futuro dovrà divenire regola e che è incardinato su alcuni asset: la centralità della bilateralità; l’aggregazione di imprese operanti sui medesimi territori; l’attivazione di processi formativi di filiera o di settore; l'attenzione nei confronti della domanda proveniente in particolare dalle piccole e dalle micro imprese; la stimolazione alla condivisione di sistemi di accesso alla conoscenza.

Siamo sulla buona strada, ma tutto ciò ancora non basta, perché il vero salto il nostro paese lo compirà quando si attuerà un circolo virtuoso, sia all’interno delle aziende che sui territori, fra qualità delle risorse umane e innovazione continua, capace di fare leva leva su nuovi modelli di governance della formazione e di attuare processi in grado di avvicinare in modo sensibile, stabile e duraturo la domanda e l’offerta, cogliendo tutti quei fenomeni emergenti, che spesso poi diventano(come ad esempio la sicurezza, l'innovazione nelle PMI, le reti) delle costanti nelle dinamiche d'impresa.

Soltanto allora, anche in Italia, la formazione costituirà davvero una leva di sviluppo economico e strategico per le singole imprese e per il sistema economico nel suo insieme.

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