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La crisi, i pomodori da raccogliere e Giovanni: storia ai confini della realtà

Oggi mi sento bene. Sto bene. Oggi e per tutta la settimana, e forse anche per tutte le altre settimane che verranno, dovrò razionalizzare il lavoro. I movimenti devono essere sincronizzati. Un passo avanti, col piede sinistro, e poi col destro spingere avanti la cassetta.

Le due mani, con entrambe le mani, cazzo. Devo riuscire a uovere le dite in maniera disgiunta. Le dita devono essere svincolate, le une dalle altre.
Ogni dita deve essere autonomo. Indice e pollice tenere la pianta, medio anulare e mignolo staccano il pomodoro. La destra e la sinistra contemporaneamente. Non devo pensare a niente. Solo alla pianta successiva, alla cassetta che deve avanzare. E poi ritmo, ritmo come le danze del mio paese, Quando ci riunivamo al mio villaggio e cantavamo e ballavamo fino all’alba, alla luce del falò.
E le mani battevano i tamburi.

Nelle orecchie il battere dei tamburi, e le mani che si muovono all’unisono al ritmo di quei tamburi. Niente e nessuno mi potrà distogliere. E la sera, al ritorno nella capanna con i compagni ripassare i movimenti, correggere gli errori, rimuovere le aritmie, allenare i muscoli delle gambe e della schiena. I movimenti delle dita.

Devono essere leggere come piume.

Questa sera si sta freschi. I compagni raccontano del loro paese, della ragazza o della moglie che li aspetta, dei loro figli. Le foto, sbiadite, sporche, piegate si passano fra mani e mani. Cosa mi aspetta domani e dopo ancora? Il futuro. Il futuro è ritornare al mio villaggio, Ma non come raccoglitore di pomodori. Ma studierò. Studierò come infermiere. Curerò i bambini del mio villaggio. Quando finirà la raccolta di pomodori, andrò via di qua. Andrò al Nord. Li mi iscriverò ad una scuola e studierò e lavorerò e poi ritornerò al mio paese, al mio villaggio. Con il sapere. Come quel dottore che venne al mio villaggio. E piantò una grande tenda e sventolava su in cima una bandiera bianca con una "E" stampata al centro. Portava sempre un camice bianco.
 
Aveva tante boccettine con liquidi diversi e pillole e sciroppi. Dentro la tenda vi era un odore di pulito, di fresco. E anche lui sapeva di pulito, di fresco. E per ognuno che entrava, aveva sempre qualcosa da dare, una cura, una parola che non capivamo, che nessuno capiva, ma che guardando negli occhi comprendavamo cosa volesse dirci. Curava le ferite, cuciva le gambe e le braccia squarciate dalle mine. Curava anche le anime. I cuori feriti. Ebbene anch’io dovrò diventare come lui. Per questo son venuto in questo paese. Qui tutti mi vogliono bene. Tutti mi aiutano. Certo, ogni tanto vi è qualcuno che si arrabbia con noi, che ci picchia, che ci prende a sputi ed insulti. Ma basta non farci caso. E’ la crisi, dicono. Evitare quei luoghi e pensare che questo paese mi aiuterà a diventare infermiere. Anch’io avrò un camice bianco. E poi quell’aggeggio che si mette alle orecchie e si ascolta il corpo. Dicono che attraverso i rumori del corpo si può conoscere il male che si ha. Sentire dentro i corpi. Certo bisogna studiare, conoscere, sapere. Ad ogni rumore una malattia. Ad ogni malattia una medicina. 
 
I compagni dicono che c’è la crisi. Io non sò cos’è la crisi, nessuno sa esattamente cosa sia la crisi. Assuary dice che la crisi porta povertà anche alla gente di qui. Beh da quando c’è la crisi, il boss ci paga di meno e ci fà lavorare di più. La settimana scorsa, per esempio, invece di darmi i dodici euro che avevo guadagnato, me ne ha dato solo dieci. Ha detto che c’è la crisi, e "O è così o smamma!!". Io non so cosa abbia voluto dire. Ma ho capito che dovevo star zitto ed accettare i dieci euro. La gente di qui dice che noi rubiamo il lavoro a loro. Che da quando ci siamo noi è venuta la crisi. Io non so se sia vero. Io conosco solo Giovanni che è di qui, di un villaggio chiamato Cerignola (città dice lui, non villaggio). Lui faceva l’operaio, era carpentiere, che non so cosa significa. E quando mi parla del suo lavoro, ex lavoro, gli occhi gli brillano. Si vede che ha nostalgia della fabbrica, come la chiama lui. Che io mi immagino sia come il campo di pomodori dove andiamo noi.
 
Solo che è al chiuso
.
E c’è il fuoco.
 
Mi dice Giovanni.
 
Ora la fabbrica, per colpa della crisi, ha chiuso. Il suo boss, il suo ex boss, il signor Mario, è andato via. Ha chiuso e ha licenziato tutti. Loro, mi dice Giovanni, con i suoi compagni , hanno lottato. Hanno occupato la fabbrica. Il sindacato li ha difesi. Ma non c’è stato nulla da fare. E’ arrivata la polizia. lo Stato e li ha mandati via. Io non so cosa è il sindacato, cosa vuol dire sciopero. Ma penso, che sia uno strumento di difesa di chi ha subito un torto. Anch’io quando andrò nel mio villaggio (non città, il mio è un villaggio), anch’io farò un sindacato E quando qualcuno subisce un torto, una violenza, un sopruso, noi, anzi il sindacato, lo potrà difendere
 
Lui, Giovanni, ha quaranta due anni, con figli e suocera a carico. Si è trovato di colpo senza salario, dice lui. Io ho capito che il salario è come i dieci euro che mi danno a settimana. Solo che il salario è mensile. Non cambia. Il boss a noi paga ogni settimana e a Giovanni pagava ogni mese. Ora però anche Giovanni non ha più il salario. Anche Giovanni viene insieme a noi nel campo.

Ma lui non è abituato.

Lui non ha ritmo.

E poi la pelle.

Vuoi mettere la nostra pelle abituata al sole, e la sua. Lui dopo una settimana aveva le scottature su tutto il corpo. E faceva poche cassette. Beh, qualche volta un po’ di pomodori io li mettevo nelle sue cassette. Ma senza che lui se ne accorgesse!!
 
Poi però una sera, mentre ero davanti al falò a farmi una canna, Giovanni mi ha dato una pipa. Era dentro una scatola di cartone di colore blu, era legata con carta argentata e con un nastro di seta, color giallo. Ora dentro la carta argentata ci metto l’erba da fumare, poi la rinchiudo nella scatola e lego con il nastro di seta, di color giallo.
 
La pipa è di quelle tutte ricamate, tutte intarsiate, con una fornace bella grande, grossa che si tiene bene nel palmo delle mani. E di roba ce ne può stare molta di più che di una semplice canna. Io l’ho guardato, lui mi ha guardato e senza dirci nulla ci siamo parlati per tre ore e mezzo, o , forse, quattro. Dammi il cinque, dammi il pugno, batti sul petto il pugno. Il nostro saluto. Il saluto di compagni. 
 
Anche Giovanni dice che è tutta colpa della crisi. Ma anche lui non sa bene cosa sia la crisi. E’ come, io penso, quando nel mio villaggio arrivano le piogge. Ma non le piogge che arrivano quà. Molto ma molto di più. Che tutto spazza via, che tutto allaga che tutto distrugge. E la dove prima era terra arsa ora c’è l’inondazione. Così io penso che sia la crisi. Giovanni dice che forse la crisi è stata voluta dalle banche, cioè non è che l’hanno voluta loro, di proposito, ma tanto hanno fatto che pur sapendo che sarebbe arrivata la crisi hanno continuato a fare quello che facevano prima.
 
Insomma un casino!!
 
Non ci ho capito nulla.
Ma Giovanni sembra aver le idee chiare.

Giovanni ha qurantadue anni. Mio padre ne aveva trentasei, quando è arrivato l’esercito e l’hanno sparato in faccia. Dicevano che era un ribelle. Mia madre mi aveva nascosto. Messo sotto delle ceste. E quando l’esercito è andato via, è riuscita a farmi accodare ad altri e sono arrivato in questo paese. Mia madre dice che se ritorno adesso al mio villaggio farò la stessa fine di mio padre.

Ucciso dall’esercito.

O dai ribelli.

Giovanni mi ricorda mio padre.

Lui alla domenica, va al suo paese a trovare la sua famiglia. Noi invece ci riposiamo. Qualche volta andiamo al centro della città, ma è sempre pericoloso. Gli abitanti della città non ci possono vedere passeggiare per il centro. Ma noi vogliamo solo farci una birra. Ed allora non andiamo tutti insieme in città. Ci va solo qualcuno e compra la birra per tutti. E poi davanti al nostro falò beviamo, fumiamo, pensiamo, sognamo. Il nostro futuro.

Il mondo che verrà , quel che faremo quel che saremo. Giovanni dice che la nostra ****REALTA’*** è al confine della realtà e che presto anche lui entrerà nella nostra ****REALTA’’******.

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