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La crisi economica in Libano: crisi del sistema globale

Se la globalizzazione economica-finanziaria aveva un sogno oggi si può affermare che quel sogno si è realizzato. Cile, Libano, Iraq, Siria, Grecia, Spagna e chissà quanti altri a breve, mostrano il volto di un’economia non più sostenibile con le attuali regole. Il copione è sempre lo stesso: aumento di tasse, debito pubblico esplosivo, deprezzamento del potere di acquisto, tagli ai servizi sociali e alla sanità, accumulo di ricchezza in pochissime mani con un divario sempre più grande tra élite e popolo. Stati in balia degli umori delle multinazionali, freddi numeri sulla pelle della gente. 

Nei vari teatri di crisi troviamo il Libano. Il Paese dei Cedri che un tempo veniva definito come “la Svizzera del Medio Oriente”, oggi deve far fronte a una drammatica crisi economica. La propria moneta deprezzata, i beni di prima necessità aumentati a dismisura, proposte politiche di uscita dalla crisi con le classica manovra di “lacrime e sangue” (aggiungerei anche creative e fantasiose come tassare Wathsapp), disoccupazione alta al 30 % e un debito pubblico giunto a 86 miliardi di dollari, cifra corrispondente al 150 % del Prodotto interno lordo. Inoltre ad aggravare la situazione è la caduta di credibilità del Premier Saad Hariri accusato di aver versato cifre da capogiro, si parla di 16 milioni di dollari, alla modella Candice van der Merwe. 

Da due settimane la gente, per il momento senza bandiere partitiche, protesta contro l’intera classe politica. In discussione c’è l’intero sistema politico e istituzionale libanese, le richieste vertono non solo su un cambio di passo economico ma su un ricambio totale della classe politica del Paese dei Cedri.

In questi giorni i leader politici si sono espressi favorevoli sull’accoglienza del “grido del popolo” proponendo nuove misure economiche. Dal Presidente Aoun al Premier Hariri la parola d’ordine è “riforme economiche”, mentre gli Hezbollah, con il leader Hassan Nasrallah, invitano a porre fine alle manifestazioni. Per il Partito di Dio la continuazione della rivolta potrebbe portare ad un vuoto di potere con gravi conseguenze. Per questo Nasrallah annuncia di appoggiare le istituzioni libanesi e i suoi esponenti attuali, rispolvera accuse a nemici interni ed esterni affermando che “Se noi scendiamo in piazza, non ci muoviamo finché non raggiungiamo i nostri obiettivi. Tuttavia, quella iniziata come una protesta spontanea, gioiosa e giusta, in cui la gente ha recuperato la speranza di cambiamento, ora viene strumentalizzata da alcuni partiti politici e sta diventando qualcos'altro. Abbiamo informazioni di intelligence secondo cui ci sarebbe uno schema internazionale per delegittimare la resistenza, e ho chiesto alla nostra gente di tenersi lontana dalle piazze. Stiamo entrando in una fase pericolosa".

 Ma altri leader, come Jumblatt e Samir Geagea, invitano il Premier a dare le dimissioni. Le prese di posizione dei vari politici irrita i manifestanti che temono di vedere una strumentalizzazione della loro protesta. Insomma si gioca sul filo del rasoio, mentre l’esercito comincia a rimuovere i blocchi stradali. Intanto si segnalano i primi scontri e la discesa in campo dei miliziani Hezbollah, che certamente non badano tanto per il sottile. 

Per un Paese che ha visto, purtroppo, nel corso della sua storia crisi sfociate in guerra civile, oggi i manifestanti rappresentano la voce di un Libano fuori dai classici schemi comunitari. Ma gioca il fattore tempo: più permane la crisi più aumenta il rischio di esplosioni di violenze in tutto il Libano.

In Libano, come altrove, viene messo in discussione il sistema di disuguaglianza. Tre giorni fa un cittadino libanese è stato chiaro: “Non siamo qui per WhatsApp, siamo qui per tutto: carburante, cibo, pane”.

Salvatore Falzone

Foto:Pixabay

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