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La crisi del debito pubblico come opportunità – Il valore legale dei titoli di studio

«Lacrime, sudore e sangue» promise agli inglesi in guerra contro il nazifascismo Winston Churchill. Ci si aspettava qualcosa di simile da Confindustria nel surrogare la politica dinanzi alla crisi del debito pubblico, avanzando autonoma ed autorevole proposta al Paese. Ed invece, come si suol dire, la montagna ha partorito un topolino.

Sembrerebbe che, per mettere a posto la macchina dell’economia, bisognerebbe:

a) Eliminare le pensioni di anzianità;

b) Tagliare le tasse ad imprese ed a lavoratori;

c)  Procedere decisi nelle privatizzazioni.

Stranamente sono tutte iniziative più in favore degli interessi imprenditori che di quelli del Paese.

Gli anziani privi di pensione non devono godere di alcuna tutela sociale (che facciamo, aboliamo la parola welfare dal vocabolario?); le tasse le devono pagare solamente i soggetti estranei al mondo del lavoro (che facciamo, prevediamo la tassazione solamente per casalinghe, studenti ed assimilabili?); tutte le funzioni statali devono essere assegnate per l’esecuzione ai privati (che facciamo, decretiamo la legittimità dei monopoli dei privati? E come facciamo per l’acqua, dopo il chiaro diniego dei cittadini per via referendaria?).

Contemporaneamente si svolgeva in tutto il Paese l’annuale rito dei test attitudinali per l’ammissione all’istruzione superiore universitaria. Ormai tanti ragazzi smettono di studiare per l’esame di Stato e si dedicano allo studio, che follia!, dei test. Tutto il Paese è diventato un testificio (vi piace questo neologismo appena inventato?) con scuole pubbliche e private dove le menti dei nostri giovani perdono il loro tempo non più dietro il latino ed il greco, bensì dietro i test.

I nostri laureati saranno i migliori possibili perché preventivamente selezionati e passati al vaglio dei testisti nazionali.

Dinanzi ai laureati l’atteggiamento degli imprenditori è quello che il vostro cronista ha potuto accertare anni orsono, quando, fresco di laurea, si recò a comunicarlo ad un caro zio; il quale gli disse «Ti sei laureato? Bene. Allora vuol dire che non sai nulla!»

Insomma, per il mondo del lavoro lo studio non serve a granché, il mestiere lo si impara solamente ed unicamente sul campo. Studiare è quasi una perdita di tempo; al massimo serve ad acquisire un titolo da usare nelle relazioni sociali. Stefano Domenicali, ad esempio, direttore sportivo della meccanicissima Ferrari, è laureato in economia e commercio e, francamente, l’economia e commercio c’azzecca ben poco con la meccanica, direbbe un noto esponente politico.

Nel mondo anglosassone, invece, l’accesso al mondo del lavoro è fatto dalle aziende attingendo alle graduatorie dei laureati delle varie università con una piena valutazione di valore, sia dell’università nel confronto con le altre università concorrenti sia del candidato nel confronto con gli altri studenti dello stesso corso. E le rette sono pagate dagli studenti proprio in ragione del valore dell’università scelta. Insomma, è la piena applicazione del libero mercato, dove i test attitudinali non servono perché funziona quella che Adam Smith chiamò la mano invisibile del libero mercato.

Nel nostro Paese, invece, ogni giudizio di valore sull’istruzione universitaria è:

a) Sostanzialmente nullo nell’economia privata;

b) Artificiale e dirigistico nell’economia pubblica, dove vige il valore legale dei titoli di studio, insieme a tanti fenomeni di malcostume, resi possibili proprio dall’assenza del libero mercato.

Il fenomeno merita qualche ulteriore considerazione.

La prima è il rammarico e la solidarietà per le famiglie che si vedono negato il diritto allo studio dei figli bocciati ai test e che non vedono davanti a se alcuna iniziativa utile per porvi rimedio. Un tempo se il figliolo aveva problemi con l’esame di Stato, lo si stimolava allo studio, lo si faceva supportare da insegnanti privati, e così via. Oggi, dinanzi all’assoluta opacità del pseudo-criterio di valore testistico venuto da Roma, nessuna concreta iniziativa utile è possibile. Davanti a questi giovani ed alle loro famiglie, davanti alla preclusione al loro diritto di adottare e di perseguire un piano di vita, si registra palese ed evidente una gravissima violazione dei diritti di libertà.

La seconda riguarda l’attuale Esecutivo. In politica giammai parola è stata maggiormente utilizzata che il termine liberale dall’attuale parte politica al governo; per poi adoperare nel settore chiave dell’istruzione universitaria il più bieco dirigismo, compatibile solamente con quello che un tempo vigeva in quelli che erano chiamati Paesi del Socialismo Reale e che oggi vive solamente a tratti nel nostro furbissimo Paese.

Sapremo utilizzare la crisi del debito pubblico per abolire questa follia del valore legale dei titoli di studio? Magari lasciando in pace gli anziani indigenti, le categorie fragili dei non lavoratori e gli utenti di pubblici servizi di tipo monopolistico mai adeguatamente regolamentati?

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