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La Fiat è ormai un’impresa americana (cvd)

Lo scorporo della Fiat Auto dal resto del gruppo, così come la decisione di produrre una serie di tipi d’auto in Serbia, ventilando la possibilità di chiudere la “storica” Mirafiori, segnano la chiusura di un’epoca. Questa chiusura era però già avvenuta da tempo, anche se poi il segnale più vistoso e “ufficiale” è arrivato più tardi, come spesso accade nella Storia. Nella Fiat Auto resta la maggioranza relativa degli Agnelli (30%), ma di fatto l’azienda sarà in mano al management (con Marchionne/Marpionne in vetta).

Intanto è interessante questo ritorno (solo apparente, perché la sostanza del capitalismo americano non era gran che cambiata) al capitalismo manageriale, ben descritto fin dal 1941 da Burnham, uno dei rarissimi economisti (non solo tali in verità) che valga ancora la pena di leggere. A differenza del capitalismo borghese, tributario di forme ereditate dal feudalesimo sia pure ormai cambiate di segno, la formazione sociale dei funzionari del capitale – implicante il passaggio dal predominio inglese a quello americano attraverso un lungo periodo di circa 70 anni di lotta multipolare e di aperto conflitto bellico policentrico – mette in secondo piano la proprietà (“dei mezzi di produzione” attraverso quella azionaria di controllo maggioritario dell’impresa), affidando il potere al management.

Interessati al mero dato economico (in tal caso il profitto), sia i marxisti che gli ideologi economisti dei dominanti hanno attribuito tale passaggio alla necessità di sganciare l’iniziativa imprenditoriale (quella innovativa, messa in risalto da Schumpeter) dal rischio di perdite o quanto meno di bassi profitti, che tarpa le ali a chi volesse appunto lanciarsi in imprese d’avanguardia e quindi economicamente molto pericolose. Bisogna che l’imprenditore innovatore non sia assillato dal fine del “massimo profitto”, soprattutto calcolato nel più breve periodo possibile. E’ da spiegare come mai, negli ultimi due decenni del ‘900, il capitalismo dei manager sia stato attaccato, mettendo in luce l’inaffidabilità di questi ultimi che, non rischiando in proprio, azzarderebbero nuove iniziative in modo del tutto avventuristico. Tornò in quel periodo in auge la proprietà, cioè gli azionisti, quelli che, nelle moderne società per azioni, le controllano con modeste quote del capitale; per cui “lavorano” e rischiano con capitali altrui!
 
Adesso, si torna a cantare le lodi dell’impresa manageriale. La Fiat è ormai una multinazionale, deve muoversi con scioltezza nel “mercato globale”, cogliere le occasioni favorevoli, “fare shopping” di nuove partecipazioni nel settore perché solo con più grandi dimensioni e varietà di prodotti si può sopravvivere in quel “Dio Mercato” che, come tutti gli Dei, assegna premi o pene (per fortuna non eterne) a coloro che meritano o demeritano. I truffaldini liberali si dimenticano di dire che i premi (guadagni) se li prendono i controllori reali delle imprese (che siano manager o proprietari di minime quote azionarie) mentre le pene spettano a tutti gli altri: i piccoli azionisti (i mitici “risparmiatori” tanto ben voluti dai liberisti perché sempre “curnuti e mazziati” nella realtà del mercato in quanto fenomeno non semplicemente economico) e i lavoratori salariati.
 
La cosiddetta “economica” ha poco senso essendo divenuta pura ideologia di mascheramento degli interessi dei dominanti. L’economia, in quanto sfera dell’agire sociale, è solitamente subordinata alla politica, cioè alle strategie di coloro che tengono in mano la barra del timone e dirigono la barca. Diciamo meglio: di quelli che decidono di indirizzarla in qualche dove, anche se lì li può aspettare il baratro, nel quale non cadono però loro bensì tutti gli altri appena sopra nominati. Una volta tanto, un sindacalista, Cremaschi, ha capito il problema; solo a metà però, il che è pericoloso perché capire a metà significa rischiare di portare al macello quelli che ti seguono. La Fiat è una multinazionale, ma non certo nel senso – propagandato anche da personaggi di “estrema sinistra”, “ultrarivoluzionari”, cui non concedo l’attenuante della buona fede – di non avere “la testa” in una precisa nazione. La Fiat, lo ha capito Cremaschi, è ormai un’impresa americana; ciò che, lo ricordo sommessamente ma non umilmente, sosteniamo da non so quanto tempo.
 
La Fiat si è presa la Chrysler perché la politica, cioè la scelta strategica, di dati ambienti statunitensi (quelli che oggi dirigono quel paese) ha deciso di dargliela; e sono certo che tali ambienti hanno aiutato anche finanziariamente la nostra azienda affinché “salvasse” quella americana. Forse per amore del vecchio marchio italiano? O perché affascinati dalla nuova 500? Non scherziamo; quest’azienda è sempre stata una testa di ponte americana (per quanto mi riguarda, la ritengo tale perfino durante la seconda guerra mondiale e al momento del colpo di Stato del 25 luglio ’43). Non ho partecipato ai “Consigli” (non tanto economici quanto proprio “di guerra”), in cui si è deciso come muoversi e con quali tempi. Questi “Consigli” non li conosce nessuno che non vi sia stato presente; e anche se qualcuno ne ha saputo qualcosa, non ne ha certo parlato. Non è quindi possibile avere qualche sicurezza circa i motivi per i quali si sono prese certe decisioni. Era comunque stato ventilato lo scorporo della Fiat Auto, pur se sempre discutendone nei giornali e nei discorsi “ufficiali” in termini di pura valutazione economica. Si sono fatti nella sostanza uscire gli Agnelli (che non credo abbiano pianto per la scelta di mettere termine ad una “lunga dinastia”), affidando l’azienda a chi, secondo l’opinione degli strateghi, ha possibilità assai più elastiche e flessibili di operare in vista degli opportuni scopi da conseguire.
 
Nelle sicuramente complesse discussioni circa il da farsi, saranno state prese pure in considerazione motivazioni economiche, non ne ho dubbi; meno ancora ne ho però sul fatto che queste erano delle “subordinate”. “In principio era la politica (strategia)” e da qui “fu la luce”. Il “Mercato” non è un Dio ma solo un Santo, di quelli che i poveracci invocano o strapazzano a seconda dei risultati ottenuti, come fanno certi napoletani che chiedono ‘a Grazia a San Gennaro. E’ imbarazzante, e pure irritante, leggere persone senz’altro preparate che fanno finta (almeno credo sia una finta, ritenendole intelligenti) di credere a decisioni puramente economiche e prese in piena autonomia dalla Fiat, soltanto attenta alle esigenze del mercato. D’altra parte, trovare stampate queste falsità proprio sul giornale di Berlusconi, per la penna di Forte e Porro, mi sembra indicativo di un “cedimento strutturale” dell’attuale centro-destra, di una resa alle manovre d’oltreatlantico. 
 
E’ adesso difficile dire a quale strategia interna e internazionale servirà la Fiat così “scorporata”. L’importante è sapere che i problemi economici non sono un mero paravento, ma comunque secondari rispetto ad altre manovre. Ripeto che la Fiat è una pedina nelle mani statunitensi (ma lo era già prima, da molto tempo): soprattutto per losche trame in Europa e forse ancor più in Italia. Tuttavia, quale importanza essa rivesta attualmente ai fini di tali mene oscure e subdole non è così facilmente comprensibile. Non è per nulla escluso che la minaccia di chiusura di Mirafiori – insita nello spostamento in Serbia di importanti linee – serva ancora una volta per ottenere appannaggi dallo Stato italiano. Non credo sia però questo lo scopo principale. I finanziamenti dovranno probabilmente essere ottenuti da uno Stato diverso da com’è oggi. In ogni caso, la Fiat con i suoi movimenti annuncia l’intenzione americana di accelerare determinati mutamenti che prima, in un’epoca apparentemente monocentrica (per un breve periodo), potevano essere diluiti in periodi più lunghi. D’altra parte, sono convinto che l’era Berlusconi sia già finita da qualche tempo; al di là del restare o meno dell’individuo “empirico” sulle scene della politica italiana. Ne parlerò in altra occasione. Non è comunque del tutto chiaro se si sceglierà un traumatico cambio di Governo o se si agirà ancora per paralisi e logoramento, tattica finora ben riuscita.
 
L’unica cosa certa è, come già detto, che capire a metà le cose è del tutto negativo: se Cremaschi lo faccia consapevolmente o proprio per suoi limiti di comprensione, non lo so. Comunque, non basta dire che la Fiat è ormai americana. Lo è nella sostanza – nel senso che ha disposto le sue pedine in un certo modo nello scacchiere internazionale per salvarsi da un probabile fallimento – ma se sarà utilizzata in Italia, dobbiamo aspettarci che non si farà solo finanziare ancora una volta dal nostro Stato. Essa agirà in modo da guidare la GFeID verso l’assalto finale, e ormai abbastanza formale, a Berlusconi, con caduta totale dell’Italia sotto la “colonizzazione” americana e il perfezionamento dell’opera iniziata con “mani pulite”, la riunione sul panfilo “Britannia”, e tutto ciò che già sappiamo.
 
In questa prospettiva, deve essere ben chiaro che le forze politiche, di riferimento dell’intero sindacato e in particolare della Cgil, sono proprio quelle costituite dai sicari più fidati degli americani e dei loro servi italiani industrial-finanziari. La Fiat potrebbe alla fine, dopo aver dato un nuovo contributo allo scardinamento dell’ordinamento del nostro paese e alla formazione di Governi di piena “colonizzazione” pro-Usa, concedere qualcosa sul piano di Mirafiori, del non spostamento in Serbia di qualche linea o di altri “pannicelli caldi” del genere. A quel punto, gente come Cremaschi griderebbe al successo della “resistenza operaia”, mentre avrebbe solo avallato – in quanto membro della “sinistra” fellona – la piena distruzione della nostra autonomia e “sovranità”. Ecco dove sta l’inganno del capire a metà le cose.
 
Stiamo molto attenti. Le forze del tradimento – perfino quelle mascherate da difesa dei lavoratori – sono in piena attività; esse ci vogliono portare alla più completa dipendenza e in posizione di ostilità nei confronti delle nuove potenze in crescita “ad est”, in direzione delle quali è invece il nostro futuro: sia per quanto concerne un possibile sviluppo sia, soprattutto, per godere di sufficienti margini di autonomia. Perché oggi l’autonomia – lo dimostra ad esempio la Turchia – consiste nel saper abilmente giostrare tra le varie potenze maggiori, approfittando dell’incipiente, ma sempre più evidente, entrata nell’era multipolare con i suoi conflitti aspri, che aprono ampi spazi di manovra; ma solo a chi vuol manovrare per l’indipendenza del proprio paese. Non è questo il caso delle forze oggi esistenti sul palcoscenico della (non) politica italiana: solo bande di mestatori e profittatori, una delle quali semplicemente gode della maggiore protezione di dati “corpi dello Stato” ormai asserviti a scopi antinazionali. 

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