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"I morti non serbano rancore", un romanzo di Nando Vitali

"I morti non serbano rancore", del napoletano Nando Vitali, non è il classico romanzo sulle foibe, ma piuttosto un viaggio introspettivo nella personalità di personaggi e protagonisti di uno dei maggiori drammi della nostra Storia recente.

Paradossalmente i primi ad usare le foibe non furono i partigiani di Tito, quanto le truppe austro-ungariche in ritirata che - come mostra lo schema della foiba di Basovizza (Ts) - utilizzarono spesso queste voragini (talvolta naturali, più spesso artificiali, trattandosi perlopiù di pozzi minerari dismessi) come discariche per il materiale che non volevano lasciare in mano al nemico (in primis i nostri, ma anche i nascenti Stati come la stessa Jugoslavia).

All'indomani dell'invasione nazifascista furono gli occupanti e i collaborazionisti, in primis i famigerati "ustaše" di Ante Pavelić, ad utilizzarle per eliminare serbi, ebrei, comunisti e quanti si opponessero (realmente o teoricamente) al loro potere dispotico.

Ancora una volta, però, nessuno aveva fatto i conti con l'oste, in questo caso Josip Broz, detto Tito (1892-1980), nato a Dumrovec (HR) da una famiglia di origini trentine e convertitosi al comunismo mentre, come soldato austriaco, si trovava prigioniero in Russia nel periodo della Rivoluzione d'Ottobre.

Più volte perseguitato e imprigionato, si rifugiò in Unione Sovietica per ritornare definitivamente in patria alla vigilia dell'invasione italo-tedesca (6 Aprile 1941) ed assumere la guida della Resistenza dapprima in unione e poi in contrasto col generale monarchico Dragoljub "Draža" Mihajlović.

Alla fine, dopo tre anni e mezzo di lotte sanguinose costate complessivamente 1.700.000 morti (cioè circa il 10% della popolazione jugoslava dell'epoca), dei quali oltre 7.500 nella sola Kragujevac come rappresaglia ad un attacco partigiano contro un convoglio tedesco, Tito uscì definitivamente vincitore dalla guerra avviando il processo che porterà alla nascita della Repubblica Federativa Popolare di Jugoslavia (poi Repubblica Federativa Socialista di Jugoslavia).

E qui esplose il dramma: entrati a Trieste (di cui la Jugoslavia rivendicava il possesso sin dalla Conferenza di Versailles per farne il porto di Lubiana), i partigiani titini scatenarono la loro pur giusta e legittima rabbia per le sofferenze subite in tre anni e mezzo d'occupazione contro la parte sbagliata della popolazione, colpevole, per così dire, di non essersi opposta (semmai fosse stata in grado di farlo) alla politica imperialista e guerrafondai della Germania nazionalsocialista e dell'Italia fascista, ma anche dei paesi confinanti, primi tra tutti la Bulgaria (che dal 1912 rivendicava il possesso della Macedonia) e l'Ungheria, che non aveva mai accettata la perdita del Banato, andato in parte alla Romania e in parte - col nome di Vojvodina - alla nascente Jugoslavia.

Il risultato fu catastrofico: oltre 4.500-5.000 persone (ma il numero esatto non si saprà mai) furono trucidate solo perché italiane o sospette collaborazioniste, comunque anticomuniste (o presunte tali).

Il romanzo di Vitali esamina i tormenti dei vari personaggi, in primo luogo del capitano Goretti, ex-ufficiale della Regia Marina passato al comando di un'unità terrestre caduta in un agguato teso dai partigiani comunisti di Erik il Rosso, cui contende l'amore (ma si può veramente chiamarlo così?) di Ivanka, l'ambigua contadina slovena che da un lato soddisfa gli appetiti sessuali dell'ufficiale italiano e dall'altro funge da ufficiale di collegamento dei partigiani contribuendo alla distruzione dell'unità di Goretti, che sopravvissuto all'evento e scoperta l'atroce realtà delle foibe dopo esservi caduto durante la fuga, medita vendetta sino a raggiungere Erik e Ivanka mentre stanno facendo l'amore, ma non sarà lui ad ucciderli, bensì uno dei suoi ex-commilitoni, anche lui sopravvissuto all'imboscata.

Erik sarà ucciso subito, mentre Ivanka subirà violenze e atrocità prima di essere abbandonata sul greto di un fiume semigelato. Sarà Lorenzo, unico figlio superstite del capitano, a compiere una sorta di viaggio dantesco guidato dallo spirito della sorellastra Marianeve (un po' Virgilio, un po' Beatrice) morta ancora in tenera età, in una sorta di introspezione nel tentativo di recuperare il rapporto col padre, da poco defunto, con cui in realtà non è mai andato d'accordo e di cui comincia a conoscere esaminando il contenuto del suo baule e interrogando l'ex-commilitone superstite del genitore, ormai ridotto in miseria e coinvolto nei combattimenti clandestini dei cani.

L'intera storia si gioca, dunque, su più livelli, col padre che dialoga col figlio tramite Marianeve, che è a sua volta uno spettro, un parto dell'immaginazione di Lorenzo, che non avendo famiglia e affetti vive in un mondo ovattato e avulso rispetto a quello reale, in cui si trova comunqe obbligato a vivere e che cerca di ricostruire gli eventi e la reale personalità paterna, ma anche la tragica e tormentata storia della sua famiglia, con la madre che - durante l'assenza del marito, con cui ha già una figlia (peraltro pur'essa mancata prematuramente) - cede alla una corte serrata di un conoscente da cui avrà, appunto, Marianeve (la cui nascita viene da Ivanka annunciata a Goretti).

Alla fine non vi sono vincitori, ma vinti, non eroi, ma soltanto vittime: Goretti è vittima degli eventi storici, ma anche della gelosia e del tradimento della moglie (da cui praltro non si separerà mai e dalla quale avrà Lorenzo, che ne raccoglie infine l'eredità) e del crollo di un mondo e di valori in cui pensava di credere e che - nonostante medaglie e riconoscimenti - gli lasceranno, infine, un vuoto da cui non si riprederà mai;

Margot, moglie francese del capitano, schiacciata da un mondo e da una famiglia che sin da principio la rifiuta e che cerca rifugio in una relazione da cui - prescindendo dalla nascita di Marianeve - uscirà completamente svuotata; Ivanka, che tenta di sopravvivere prostituendosi col capitano e con Erik il Rosso e mentendo a entrambi, ma soprattutto a sé stessa, finendo infine annientata e pagando con la vita per colpe proprie ma anche non sue;

Erik il Rosso, la cui ferocia è frutto delle violenze e dei soprusi subiti sin da ragazzo proprio dagli italiani e da cui verrà annientato proprio nell'ora del suo massimo trionfo, mancando all'appuntamento con la Storia; Lorenzo, rassegnato ad un'esistenza triste e solitaria; ma soprattutto i rispettivi paesi e popoli, che anche dopo la dissoluzione della Jugoslavia non riusciranno più a ritrovare quell'illusoria armonia (sempre che sia mai realmente esistita) in cui si erano cullati sino all'aggressione e ai tragici eventi che ne seguirono e di cui entrambi pagano tutt'ora le conseguenze.

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