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L’aquilone dei Balcani

Marija schiaccia mezza Marlboro nel posacenere e getta sul divano bianco una slavina di riccioli biondi. Doveva arrivare più di un’ora fa e aveva promesso di farmi vedere Skopje, Macedonia, prima di salire sull’aereo che domani mattina mi riporterà in Italia: il sole ora è sceso sul largo fiume fangoso che attraversa il centro e i bar alla moda allineati sull’argine sono pieni di camicette scure e lucide, capelli lunghi impregnati di gel e giovanissime brune che spingono passeggini, potenti altoparlanti diffondono musica house. Marija sorride e si scusa per il ritardo mentre un cameriere le volteggia accanto con una decina di bottiglie di birra Skopsko in bilico sulla testa: è un’amica di Gab, il giornalista francese con cui lavoro, e fa “accomodation”, sistema gente di passaggio in lussuosi appartamenti con vista sulla vecchia Medina di Skopje. Nel mio, rimediato quasi gratis, oggi pomeriggio ho aperto il rubinetto e sono stato a guardare l’acqua: dopo più di un mese in Kosovo mi mancava. Sono molto stanco e mezza bottiglia di birra mi affonda nel divano: Marija mi prende in giro, mi chiama ragazzo di campagna. “Il Kosovo non esiste”, spiega. Il Kosovo è Serbia e dietro le montagne attorno a Skopje non c’è nulla: quel piccolo scherzo di stato in guerra è planato sui Balcani come un aquilone rotto. “Andiamo a ballare”, annuncia Marija: sceglie la sua tra le fiammanti utilitarie dei giovani macedoni ricchi, accende stereo e climatizzatore, si getta imprecando nel traffico e parcheggia cinquecento metri più avanti. “Qui abbiamo Alessandro, madre Teresa, Pandev e in Kosovo non c’è nulla”; sul ponte ingorgato dalle auto penso che Alessandro il Macedone in realtà era greco, che madre Teresa è nata a Skopje ma ha preso i voti in un convento del Kosovo, che Goran Pandev, il macedone della Lazio, ha trascorso un anno in panchina: il cielo di questa strana Svizzera nei Balcani s’è rapidamente riempito di stelle ma sono troppo stanco per protestare. Il locale è pieno di gente, Marija mi offre una Bud mentre sul palco un omaccione con il berretto dei New York Yankees massacra la sua chitarra: intorno a me molte giacche di velluto con toppe sui gomiti, sigarette fumate avidamente fino al filtro, eleganti baffetti alla Fred Buscaglione che oscillano al tempo blues. “Gli Albanesi in Kosovo si comportano come bestie – mi sussurra Marija nell’orecchio – e sono più dei Serbi, quasi nove contro uno, perché fanno sesso senza preservativo, ma guarda le chiese, le case, guarda nei supermercati, non sanno fare niente da soli, tutto di Bosnia, Croazia, Romania”. Intorno a noi ora ci sono solo banche di vetro e d’alluminio: penso all’emporio, una piccola baracca di lamiera accanto alla mia casa nella regione più povera tra le montagne del Kosovo, con i pochi pacchi di pasta italiana, le tazzine a fiori cinesi di bachelite, la birra serba nelle bottiglie di plastica da due litri e il gulasch ungherese da scaldare nella latta; penso all’Hummer dei soldati americani di traverso sul sentiero, circondata dai bambini del villaggio. Sulla collina oltre l’emporio c’è la miniera requisita dai guerriglieri albanesi dell’Uck, nella valle i campi che non si possono coltivare perchè l’esercito serbo ha lasciato un tappeto di mine: made in Kosovo sono solo le uova fresche e i bambini. Alle cinque di mattina sediamo su una panchina tra i palazzi eleganti del centro di Skopje, accanto ad un paio di coppie che ridono e bevono cappuccino e birra ai tavoli dell’ultimo bar aperto. Chiedo a Marija se è mai stata a Pristhina, la capitale del Kosovo. Mi guarda come fossi impazzito. A me il sabato piaceva fare lunghe passeggiate sull’asfalto piegato dal sole di Boulevard Bill Clinton, accanto al fiume di vecchie Mercedes e al fumo nero delle Yugo, tra i ragazzi albanesi con le magliette fosforescenti, dal bunker delle Nazioni Unite al vecchio mercato dei Turchi con i dolci di miele e pistacchi e i vestiti da sposa ammucchiati sulle bancarelle. Marija accende un’altra Marlboro, l’aria è umida e rossa attorno ai lampioni. Nei taxi i businessman sfrecciano verso l’aeroporto e calano gli occhiali neri.

Per il Kosovo bisogna prendere il pullman verso nord che si muove lentamente dietro il vetro della stazione di Skopje in una nuvola di fumo congelato dall’aria condizionata: nei Balcani, fuori o dentro, si fuma sempre. Fuori città c’è la grande capitale dei Rom: l’annuncia una tavola di legno sospesa a mezz’aria con un anello di ferro al centro per giocare a basket, perché l’asfalto tra un camion e l’altro è l’unico posto senza fango dove la palla rimbalza. Poi la strada si avvita tra le montagne e i colori spariscono sotto una patina fredda, metallica. Sono i molti scheletri grigi delle fabbriche abbandonate o il velo d’umidità che macchia il finestrino del pullman e finisco a pensare ai riccioli cotonati e alle spalline imbottite: c’è sapore d’anni ottanta, come quando accendi la televisione la mattina presto e c’è la replica di un vecchio telefilm dimenticato. E il pullman è proprio quello della gita scolastica, con i sedili spinosi marrone e rosso e il posacenere di plastica pieno di gomme masticate. La prima volta sono arrivato alla frontiera dall’aeroporto di Skopje con un taxi sgangherato, l’autista mi ha scaricato davanti alla frontiera ed è scappato sgommando perché non aveva il visto per passare. Per tutto il viaggio mi aveva chiesto cosa andassi a fare in Kosovo. Ho fatto a piedi i cento metri di terra di nessuno con una vecchia che trascinava grandi buste di plastica, c’era un cane nero fermo in mezzo alla strada e carri armati con la bandiera della Finlandia. Il Kosovo è Serbia per i Serbi, Albania per gli Albanesi e un gran pasticcio per tutti gli altri, quelli dentro al grattacielo improbabile nel centro di Pristhina costruito per la governance internazionale o nei bar e nei bordelli affollati di funzionari poliglotti e ufficiali sovrappeso in tuta mimetica. Legge, giustizia e pace viaggiano per le strade del Kosovo ad alta velocità sotto forma di fuoristrada bianchi con aria condizionata, vetri scuri e sigle blu sugli sportelli: Onu, Kfor, Unhcr, Osce, Unmik. Di solito non si fermano. Il pullman si ferma continuamente e compie deviazioni impreviste per portare ognuno nel proprio villaggio ed è meglio non fissare appuntamenti troppo fiscali: in Kosovo bisogna far bollire sempre l’acqua e non avere mai fretta. Una vecchia Opel nera truccata e piena di adesivi supera rombando contromano la buffa motoretta di un Rom, una sega elettrica con tre ruote applicate a martellate; un Centauro dei soldati francesi, un blindato grande come un autobus, è riverso nel fosso accanto al distributore di benzina con una ruota a terra: sulle pompe rosse e bianche c’è scritto “mira se vini”, grazie di essere venuti. Nella piana di Kosovo Polje c’è un incidente e il pullman si mette in coda dietro alle macchine ferme, il vento freddo spazza l’erba e i tralicci dell’alta tensione e fa il cielo livido. Si aspetta per ore in silenzio, poi l’urlo dell’ambulanza lacera l’aria e i pompieri arrivano su un bulldozer della Nato per separare le lamiere accartocciate. Nessuno parla, il camionista bulgaro che ha provato a tornare indietro s’è impantanato fuori strada senza un rumore. In questa steppa i principi serbi hanno combattuto contro i sultani turchi nel 1389. Hanno perso ma hanno fermato l’espansione ottomana: da allora i musulmani albanesi, turchi, gorani, rom, macedoni e i cristiani ortodossi serbi, greci, croati, bulgari vivono qui senza guardarsi e ogni tanto si uccidono. In cima alla torre diroccata dei morti in guerra un soldato Nato slovacco dalla barba nerissima s’annoia e scruta l’orizzonte con il binocolo, vede fabbriche distrutte dalle bombe e Pristhina in lontananza avviluppata nello smog, la tomba del sultano vincitore ucciso in battaglia che naufraga nell’erba alta. Lungo la strada case senza balconi e intonaco e officine di lamiera stanno accalcate come i fondali di cartapesta dei western, con il prato grigio di sterpaglie dietro: diceva Ryszard Kapuściński che un paese ex comunista fuori controllo si riconosce dalle stamberghe degli artigiani accanto alle ville dei mafiosi, dai centri commerciali costruiti a metà pieni di neon lampeggianti, dai ristoranti barocchi accanto alle capanne che vendono hamburger e peperoni ripieni di riso nero. Dove si ferma il pullman ne fanno di ottimi, poco lontano dalla base militare Bonestill, una delle più grandi al di fuori degli Stati Uniti, tra il negozio che vende cd contraffatti, pugnali cromati, film porno e poster di Bruce Lee e l’affollatissima tana dei tatuaggi con la minacciosa insegna a tribali neri: ho dimenticato di chiedere a Krazy Kay, il marine di pattuglia sulla collina dove abito, se è lì che si è fatto disegnare sul braccio l’aquila che stringe tra gli artigli la bandiera a stelle e strisce.

È mattina e sono seduto accanto ad un giovane italiano che s’arrabbia con il suo telefono cellulare fino a quando l’aereo decolla; il collo rasato di fresco e compresso nel vestito di Armani è viola e troppo profumato. Chiudo gli occhi e provo a ricordare la faccia di Miran, un frate serbo fragile e magro con la barba lunghissima e grigia e una treccia di capelli bianchi nascosta nello zuccotto nero. Mi ha offerto una tazza di miele e abbiamo bevuto rakia a mezzogiorno sotto la tettoia infuocata della sua casa da eremita. Lui ha sciolto nella sua grappa un’aspirina e mi ha raccontato l’incendio del grande monastero di Prizren, quando i soldati tedeschi hanno caricato i frati serbi sui camion poco prima che gli albanesi li linciassero. Miran ogni giorno si alza e va ad aprire la piccola chiesa bianca in mezzo al prato per cambiare le candele, dal villaggio serbo non viene nessuno, sono scappati tutti: gli occhi del frate erano grigi come la sua tonaca. Mi ricordo la faccia di Mustafa, un pastore albanese di novant’anni: l’ho incontrato con le sue tre mucche sulla collina e mi ha offerto del tabacco aspro e grosso. Mi ha mostrato l’ingresso della miniera dove lavorava: ha detto che è vecchio ma ricorda dov’è l’oro e se vado io facciamo a metà. Mi ha raccontato del nonno fucilato dai bulgari su quella collina e dell’artiglieria serba che sette anni fa da lì tirava sulla sua casa. “Qui la guerra c’è sempre stata”, mi ha detto, e i suoi occhi erano grigi come l’erba. Apro gli occhi e guardo nel finestrino: ci sono i Balcani, poi una striscia di mare sottile. L’Italia è proprio lì di fronte.

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