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Il ponte di Mitrovitza

La lunga strada dritta che da Atene porta a Belgrado attraversa la steppa bianca seminata di vecchie Trabant senza ruote affondate nel fango e usate come pollai. All’improvviso l’asfalto s’impenna, scavalca crepacci vertiginosi e finisce contro la frontiera serba. I poliziotti non mi lasciano passare: per loro sono già in Serbia, un clandestino senza visto d’ingresso perchè il timbro delle Nazioni Unite sul mio passaporto non vale nulla. Dovrei tornare indietro per centinaia di chilometri, attraversare la Macedonia e passare la frontiera sul versante bulgaro: i quasi due milioni d’abitanti del Kosovo, perlopiù albanesi, possiedono passaporti non riconosciuti dai paesi confinanti e non possono uscire dallo stato. Nel tardo pomeriggio dorato di una domenica torrida costeggio un lago lungo e stretto in una vallata ripida e verdissima come un fiordo norvegese, incassata tra Kosovo, Serbia e Montenegro. Attraverso lentamente lo stretto passaggio in cima ad una grande diga, intasato di vecchie auto e motociclette fumose, dove centinaia di ragazzi prendono il sole e si tuffano dall’argine di cemento nell’acqua sporca. Sulla strada c’è una pattuglia di Bersaglieri italiani immobile sotto il sole: piedi calzati di pesanti anfibi penzolano dallo sportello del blindato, una ragazza bruna con il fucile mitragliatore dietro la schiena scaccia una mosca e sistema sul capo il casco con le piume nere lucide. Scendo sulla ripida riva del lago e c’è un ragazzone burbero in cima ad una palafitta che cuoce piccole trote sulla brace. Bastano quattro bracciate nell’acqua torbida per attraversare la frontiera: un piccolo canotto con una famigliola in gita mi passa accanto, a poppa sventola una bandierina serba.

Mitrovitza è l’ultima città nel nord del Kosovo e l’unica dove vivono entrambe le etnie: un fiume quasi immobile le divide, gli Albanesi a sud nella valle, i Serbi sulla collina a nord. “Mitrò”, con la “r” soffice, la chiamano i soldati francesi che sorvegliano annoiati il grande ponte dai parapetti luccicanti che unisce le due rive. Quando lo attraverso a piedi al tramonto scavalcando la barriera di filo spinato non c’è nessuno. Mi fermo un istante a guardare giù un altro piccolo ponte, poco più di un asse di legno tra i sassi del fiume su cui qualcuno sta passando di corsa, e un enorme soldato dalla mimetica grigia e blu si avvicina con il suo mitra. È russo, un tagliagole che sorveglia il lato serbo del ponte: quando legge sul mio passaporto “Repubblica Italiana” la larga mascella sporgente si scioglie in un sorriso. Mi accompagna sull’altra sponda raccomandandomi di non fermarmi mai sul ponte, per nessun motivo. Ho fatto tardi all’appuntamento con Jelena, una ragazza serba che lavora come interprete: mi sta aspettando nella piazza in cima alla collina, tra i palazzi a molti piani con l’intonaco sgretolato turchese, arancione, verde smeraldo. I chioschi di lamiera blu attorno alla piazza stanno chiudendo, tabaccai e spacci di bigodini e tinte per capelli: la strada è piena di giovani con gli occhiali scuri anche se è quasi buio e di ragazze incredibilmente belle che fendono il traffico d’auto in gruppi di tre, sottobraccio, dondolando sui tacchi a spillo. Uomini muscolosi con le teste rasate parlottano negli angoli e guardano ostentatamente attorno alla ricerca degli occhi dei passanti, hanno giubbotti lucidi e neri con scritte dorate in cirillico serrati fino al collo anche se fa caldo come a mezzogiorno. “Sono picchiatori – spiega distrattamente Jelena mentre scorre il menù di sola carne del ristorante – controllano che gli albanesi non salgano fino a qui”. Nel 2004 si è sparsa la voce che dei bambini albanesi erano stati affogati nel fiume: decine di serbi sono stati uccisi e i soldati francesi e russi hanno fatto appena in tempo a barricarsi nelle caserme. Oggi lungo l’argine si cammina accanto ai mozziconi delle case serbe bruciate con la scomoda sensazione di essere osservati; sull’altra riva ci sono duecento metri di macerie e calcinacci, il quartiere dei Rom musulmani raso al suolo dall’artiglieria di Belgrado. “Buonasera sighnore, come ha stai?” Jelena ride della sua traballante pronuncia: per lavorare come interprete con i soldati italiani, che non conoscono come lei l’Inglese, il Francese, lo Spagnolo e il Russo, ha comprato un piccolo frasario malandato. Ha grandi occhi scuri dietro i piccoli occhiali tondi e belle gambe magre e pallide nel vestito a fiorellini marroni, potrebbe essere in un caffé all’università di Roma, in fila davanti ad una discoteca londinese, nella metropolitana di Parigi. Vive nel piccolo alloggio grigio per gli studenti della minuscola università di Mitrovitza nord da quando alla fine della guerra quella di Pristhina è stata vietata ai ragazzi serbi. La sua laurea sarà valida solo a Belgrado: fino al 1999 erano i ragazzi albanesi a studiare di nascosto nelle scuole illegali improvvisate nei granai. Le chiedo se tra le tante lingue che ha studiato c’è l’Albanese: “Perché?” mi risponde. È passata da poco mezzanotte quando attraverso di nuovo il ponte. La grande piazza del bazar nel quartiere albanese è deserta: tra il comando delle Nazione Unite e un chiosco che vende film porno c’è una specie di passaggio segreto scavato nel vecchio palazzo della radio. Dietro ci sono le case nuove dipinte di rosso fuoco e arancione, con i leoni di stucco e gli architravi come meringhe di gesso; dalle centinaia di parabole satellitari cavi neri s’aggrovigliano attorno ai pali al centro della strada e fanno un tetto di ragnatela. Gezim m’aspetta nel locale in fondo alla strada, affonda nel divano di pelle scura e ha un plotone di giornali sportivi spianati sul tavolino: neanche mi siedo e ha già ordinato per me un bicchierone di rakia, la grappa di prugna, e una lattina di Red Bull. Ha poco più di trent’anni e ha vissuto in Svezia, Francia, Germania, Turchia, Stati Uniti, Danimarca: sa parlare di donne e di calcio in quasi tutte le lingue del mondo e ha la faccia di un contrabbandiere in carriera. Lavora per un’Ong, ci sa fare e ha trovato a molti ragazzi un lavoro onesto, un motivo per non scappare. Non vuole parlare di politica: meglio la Juventus retrocessa in serie B, mentre mi versa un’altra rakia. “Voi italiani non avete fatto molto per noi”: Gezim è il primo tra gli albanesi che ho conosciuto che non ci ama incondizionatamente. Clinton, mi spiega, doveva farsi rieleggere quando ha bombardato la Serbia e D’Alema ha dato le basi italiane ai bombardieri Nato quando la simpatia per Milosevic era ormai fuori moda, quando i cimiteri seminati di rosse bandiere albanesi e fiori di plastica che s’incontrano in ogni strada erano già pieni. A Gezim non piacciono gli americani, non gli piace nessuno e vorrebbe che tutti i soldati e i diplomatici andassero via. “E i serbi?”. “Se ne andranno anche loro” risponde e fa tintinnare i bicchieri di nuovo pieni di grappa mentre mi sforzo di restare in piedi, tra gli altoparlanti che diffondono musica lounge e le istantanee di Elvis. Potresti incontrare Gezim altrove, al banco dell’aperitivo a Milano dopo l’ora di chiusura degli uffici o in un ristorante di pesce a Copenaghen, di quelli con le candele che galleggiano in una ciotola di cristallo. Non a Mitrovitza nord: non ci va da sette anni.

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