• AgoraVox su Twitter
  • RSS
  • Agoravox Mobile

 Home page > Tribuna Libera > L’abitudine alla morte. Degli altri...

L’abitudine alla morte. Degli altri...

Nelle due stragi di ieri a Bruxelles, sono morte 31 persone e ci sono 250 feriti. Dall’inizio dell’anno, nel Mediterraneo, sono morti oltre 450 migranti, mentre tentavano di fuggire da zone di guerra o da territori in cui la vita è a rischio per le precarie condizioni economiche. Facendo una rapidissima somma, di soli due eventi recenti, arriviamo a circa 500 morti e 250 feriti.

Aggiungiamo un altro elemento: la guerra in Siria, che è giunta all’inizio del sesto anno. Sapevate che l’ONU, dal 2014, ha smesso di contare i morti siriani?

Il portavoce dell’Office of the United Nations High Commissioner for Human Rights - Rupert Colville, - ha spiegato che ci sono enormi difficoltà ad accedere ai territori siriani, anche da parte di organizzazioni indipendenti che operano nel settore umanitario, oltre alle enormi difficoltà che si riscontrano nella verifica delle informazioni. Il conteggio si è fermato quindi al 2014, quando le vittime della guerra in Siria erano state calcolate in circa 250.000.

Smettere di contare i morti, è – in qualche modo – un delitto che si aggiunge al delitto. Il motivo è semplice: non fornendo un resoconto dei decessi, quotidiani, si copre in qualche modo ciò che accade, e l’opinione pubblica perde la realtà dei fatti, convincendosi che la situazione umanitaria sima meno grave di quanto sia nella realtà.

In tutto ciò, è venuto a crearsi un criterio, umanamente inaccettabile: l’abitudine alla morte. Degli altri. La morte, finché resta confinata in altri territori, fosse anche un’altra regione all’interno della nazione in cui si vive, è diventata cosa normale. Non accettabile, normale. Che è peggio. Se i morti ammazzati appaiono quotidianamente nelle immagini del TG, sulle pagine dei giornali, entrano a far parte delle abitudini, e il senso della gravità scompare. Si attenua. Prende altre forme.

Da un lato l’umanità ha orrore dell’ipotesi di un attacco terroristico che può avvenire ovunque, causato da un sistema complesso, che fa apparire alcuni come i flagellatori della vita e del futuro altrui, ma che non chiarisce da quale mano siano mossi. Dall’altro, l’abitudine alla morte, e anche alla visione della morte, ha appannato i sentimenti e le sensazioni che la collettività prova di fronte a veri genocidi.

Ricordo i tempi in cui, dopo un omicidio, si continuava a parlarne per mesi, a volte persino per anni. Non era comune che avvenisse l’uccisione di un essere umano, e men che meno che apparisse – dall’oscurità – qualche castigatore d’incolpevoli cittadini. I kamikaze non avevano ancora fatto capolino nel sistema stragista, appannaggio semmai, dagli anni ’70 in poi, di gruppi armati, gruppi politici di potere e qualche indipendente col pallino della rivoluzione.

Ma le morti facevano effetto. Le stragi ancor di più. E non solo per il timore che altri atti simili accadessero ancora: no, si sentiva sull’anima il peso dei morti. Se poi a morire era un bambino, si faticava parecchio a dimenticarne il volto.

Oggi no. Oggi si scattano foto a memoria – brevissima – di corpi dilaniati dalle bombe, o affogate nelle acqua della speranza, che divengono cimiteri beffardi e senza nomi né lapidi a ricordo.

Ho letto con sgomento le dichiarazioni della fotoreporter che scattò la foto del bimbo siriano, affogato al largo della Turchia: Aylan, lo ricorderete tutti. In quel viaggio della disperazione, morì quasi tutta la famiglia, solo il padre si salvò, ma non ottenne mai lo status di rifugiato e dovette tornare a Kobane, solo e sconfitto. Ha perso per sempre la sua battaglia personale: dare un futuro alle persone che più amava.

La fotoreporter, Nilüfer Demir, in un eccesso di esagitazione mista agli effetti psichedelici procurati dalla diffusione dello scatto, a livello mondiale, che mostra il corpo senza vita di Aylan, dichiarò: "Sono venuta al mondo per scattare quelle foto e per scrivere questa storia, spettava a me". Orrore che si aggiunge all’orrore. Narcisismo che si abbina alla scorretta interpretazione di un mestiere.

Di Aylan oggi, non parla più nessuno. Dei morti di ieri a Bruxelles, non conosciamo il nome. Dei morti siriani, non aggiorniamo il numero. I morti – anche quelli che muoiono nell’esatto istante in cui lo scrivo – in tutto il mondo, sono divenuti parte del quotidiano, e in quanto tali, assimilati come cosa normale, per cui spendersi – semmai – in inutili campagne di indignazione, della durata di poche ore, sui social.

Eppure la morte, quella che ci tocca da vicino, non solo fa paura ma ci schianta sotto il peso del dolore. Perdiamo un genitore, un amico, una moglie, e la nostra vita è sconvolta per sempre. Se a perdere la vita solo persone di cui non sappiamo nulla, che ci vengono mostrate solo col fine ultimo di trarre uno scoop per qualche ora, allora si può voltare la testa, e tornare alla solite faccende.

Desidero una società che sobbalzi ogni giorno, per ogni morto ammazzato, ovunque accada. Una società che non si occupi del criterio della morte solo quando tocca da vicino gli individui.

Desidero un mondo in cui non si propongano inutili minuti di silenzio su Facebook, per poi tornare a parlare di altro, pur di non dover cacciare la testa da sotto la sabbia. Ciò che sta accadendo, ovunque nel mondo, è troppo terribile per ottenere una briciola di interesse, da parte della collettività.

L’abitudine alla morte degli altri, rende insensibili. E molta responsabilità di tutto questo, ce l’hanno certi media, che hanno fondato il loro successo sulla spettacolarizzazione – momentanea – della morte. Così facendo però, non si è ottenuto altro che l’abitudine alla visione di corpi senza vita. Per ottenere un sussulto nelle persone, di questo passo, sarà necessario filmare in diretta una strage, far vedere bene pezzi di corpo che si staccano, budella che esplodono. No, io non ci sto. Voglio continuare a piangere a ogni strage, voglio continuare a stupirmi per ogni morto e per tutti i genocidi in atto. Non diventerò mai complice di chi tratta il tema della morte come fosse un prodotto in vendita al supermercato.

Non mi abituerò mai, e sarebbe il caso che lo facessimo tutti, contro un sistema che sta abbassando il livello di interesse e di attenzione su un genocidio estremo e senza limiti. In questo modo, nessuno opporrà più resistenza, ed è grave.

Grave come quando l’umanità ha finto di non sapere che era in atto un genocidio organizzato e sistematico, durante la Seconda Guerra Mondiale. Grave, come quando si ritiene poco grave ciò che accade ai nostri simili e che, un giorno, potrebbe accadere a noi.

Questo articolo è stato pubblicato qui

Lasciare un commento

Per commentare registrati al sito in alto a destra di questa pagina

Se non sei registrato puoi farlo qui


Sostieni la Fondazione AgoraVox


Pubblicità




Pubblicità



Palmares

Pubblicità