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L’Egitto verso il dopo Mubarak

Venerdì 30 settembre 2011, a Ferrara, al Festival di Internazionale, si è parlato dell’Egitto dopo Mubarak con alcuni giovanissimi opinion leader, in gran parte blogger. Issandr el Amrani, fondatore dell’autorevole blog The Arabist, Hossam el Hamalawy, vincitore del premio giornalistico dedicato ad Anna Politkovskaja, e autore del blog Arabawy. Infine Ahmed Nagi, giornalista e scrittore, e Sarah el Sirgany, blogger.

Alla data dell’incontro, e tuttora, la situazione è molto confusa, a causa di un governo di transizione militare, “inquinato” dalla presenza di eminenze del precedente governo di Mubarak, che pare ostacolare le richieste di cambiamento.

I giovani giornalisti egiziani non hanno alcuna fiducia nei confronti delle azioni della giunta militare; le tre tornate elettorali previste per la fine di novembre, per la metà di dicembre e per gennaio (lo stato è federale) non entusiasmano affatto, perché i partiti politici che si presentano non hanno proposte elettorali precise. C’è chi, come Sarah, teme che lo sviluppo di una piattaforma politica possa avvenire solo a voti raccolti. Insomma si va’ alla cieca. Guardano alla Tunisia, dove il governo militare di transizione ha predisposto immediatamente le elezioni presidenziali, dando una forta impronta di leadership al Paese.

In Egitto invece non si è ancora usciti dallo scontro di piazza (all’epoca dell’incontro non erano ancora avvenuti i gravi scontri che hanno coinvolto i cristiani copti) perché è un Paese che non ha riformato la polizia politica e che, economicamente, continua a tutelare il 50% dei datori di lavoro in nero.

Hossam, di posizioni fortemente socialiste, vede il possibile riscatto nella mobilitazione operaia e studentesca, e cita la data del 28 gennaio scorso come momento di scontro durissimo contro i commissariati. Chi deve garantire lo svolgimento delle nuove elezioni era addirittura vicino a Mubarak. Non può esserci né democrazia né costituzione con l’attuale governo transitorio, e Hossam paventa addirittura l’uso delle armi come unica soluzione.

Il 70% della popolazione, compresi anche alcuni ex militari, al momento di scegliere furono contro Mubarak. Destituito quest’ultimo, quando videro che veniva sostituito dal suo vice Omar Suleiman, implicato in vicende di spionaggio e definito dai relatori “personaggio sinistro”, il malcontento si diffuse dalla popolazione ai vertici, tanto da creare uno scontro all’interno della Guardia Nazionale che portò all’assassinio di Suleiman l’11 febbraio di quest’anno.

Ma come è stata realmente gestita la rivolta dal punto di vista mediatico? Siamo portati a pensare, in questa eccessiva aspettativa per il web, che tutto sia nato e cresciuto con i blog. Non è così. I blog, nello stato di totale ignoranza tecnologica della classe dirigente, sono stati utili per creare il primo passaparola per ritrovarsi in piazza, ma una volta scoppiata la rivolta, e oscurati i cellulari, i rivoltosi sono entrati direttamente nelle redazioni di Al Jazeera e della BBC per mostrare le immagini raccolte dai loro cellulari e raccontare cosa stava avvenendo nelle varie piazze. È stato in sostanza un effetto a catena dove anche i media tradizionali hanno giocato un ruolo fondamentale.

Lo stesso non si può dire dei quotidiani, come il popolare The Muslim, che un giorno critica aspramente l’organizzazione dei Fratelli Musulmani e un giorno li blandisce. L’atteggiamento di tutti i relatori è stato di sostanziale apertura ai Fratelli Musulmani (che molto hanno sofferto durante il governo Mubarak), se con loro è possibile intavolare una discussione che agevoli il passaggio dal governo militare alla democrazia. Rimproverano all’occidente una islamofobia ossessiva; sono loro i primi a riconoscere che fra i Fratelli Musulmani ci sono moderati come estremisti fascisti (letterale), ma non c’è alcun rischio di cadere in una teocrazia.

Esiste addirittura una frattura fra religione e coscienza dei propri diritti lavorativi. Molti degli scioperanti provengono dalle provincie povere, sono salafiti, quindi islamici ortodossi, ma scioperano nonostante le fatwe rivolte loro dai dirigenti dei Fratelli Musulmani. A loro interessa più la discussione sui salari che sulla sharia (legge) islamica. Sembra quindi che si possa parlare di un popolo maturo per il cambiamento e forse di un islamismo liberale.

Chi sono i nemici per i nuovi Egiziani? Degli Stati Uniti si disinteressano, vedendoli impantanati in questioni economico-politiche, guardano a Israele come a un monolite occidentale che non cambia, temono moltissimo le attività controrivoluzionarie dell’Arabia Saudita e sognano lo scioglimento della Lega Araba perché rappresentazione di un manipolo di dittatori.

La Turchia, nonostante gli avvicinamenti di Erdogan al nuovo movimento arabo, viene vista come un regime militare che non ha nulla a che spartire col padre nobile Kemal Ataturk. E l’Europa? Issandr el Amrani ha fatto parte di un “think tank” europeo, e ricorda che ogni volta che si provava a coinvolgere Bruxelles nelle questioni egiziane c’era un netto disinteresse e ha voltato la faccia quando i Fratelli Musulmani venivano repressi o quando avvenivano i rapimenti di cittadini egiziani portati nei luoghi di detenzione di Mubarak (Hossam cita il famigerato caso di Milano, quando i servizi segreti italiani e americani in una operazione congiunta rapirono un imam egiziano e lo rimpatriarono). A questo punto l’Occidente dovrebbe fare il meno possibile.

Soluzioni? Ahmed Nagi ricorda l’esperienza dal basso di 5 ragazzi che hanno creato una Ong che ha organizzato le elezioni in un villaggio, riuscendo a restituirlo alla democrazia. È da queste piccole realtà che deve partire il cambiamento. Il Cairo è solo una facciata, è l’immagine sfalsata di una intera nazione. Senza una nuova idea di modalità di organizzazione delle azioni anche una nuova costituzione è carta straccia.

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