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L’Aquila, intercettazioni: il prezzo del silenzio

Davanti al contenuto delle intercettazioni che coinvolgono l’ex assessore alle Opere Pubbliche ed alcuni tecnici del Comune, ci possono essere due reazioni, entrambi legittime ed entrambe destinate a foggiare il senso civico dell’intera Città dell’Aquila.

 
La prima soluzione, per qualcuno forse dolorosa, è quella di dissociarsi, pretendere che tutte le persone coinvolte chiariscano dopo averlo fatto agli inquirenti - che, ricordiamolo, non hanno ravvisato nulla di illegale - anche ai cittadini il senso vero di alcune frasi, allusioni e di alcuni loro comportamenti. Se sono stati capaci di dirimere ogni dubbio agli inquirenti, saranno altrettanto facilmente convincenti con il resto della città. Se in occasione delle intercettazioni della cricca ci si è sdegnati per chi la notte del terremoto, lontano dall’Aquila, rideva e sfregava le mani pensando agli affari che ne potevano scaturire, oggi bisogna riaffermare che quell’indignazione era vera e non un cinico e ipocrita gioco tra vittime e carnefici che speculano e si invertono i ruoli a seconda dei propri interessi.

Come direbbe il Premier Letta, bisogna avere una reazione chiara per segnare una linea tra chi è un leale servitore delle istituzioni e cura gli interessi della comunità e chi, invece, abusa della propria posizione, seppur formalmente rispettando leggi e norme dello Stato. Le ordinanze del governo che hanno permesso di derogare alle normali procedere servivano per facilitare e accelerare la ricostruzione aumentando la discrezionalità degli amministratori comunali nella certezza che, davanti a una realtà tanto drammatica, sarebbero stati loro per primi a tutelare gli interessi dei cittadini. Certo qualcuno avrà più di un imbarazzo, soprattutto davanti ai parenti delle vittime, nel spiegare cosa intendeva quando definiva in camera caritatis - o così almeno pensava - il terremoto “‘na botta di culo”. Qualcuno dovrà trovare le parole giuste e credibili per giustificare la ragione per la quale non ha preso immediati provvedimenti quando riteneva che un dipendente comunale si rifiutasse di “fare un favore al Sindaco” solo perché un altro collega stesse lucrando più di lui sulla ricostruzione. Ma - per usare le stesse parole della senatrice Stefania Pezzopane, sempre pronta ad indignarsi in altre occasioni - bisognerà dimostrare di essere almeno in grado di compiere un gesto di “intelligenza e umiltà” ed eventualmente chiedere scusa, se si vuole ripristinare un minimo di credibilità al buon nome Comune dell’Aquila.

La seconda alternativa, apparentemente molto più semplice e immediata, è quella del silenzio. Mantenere il totale silenzio sperando che il triste episodio finisca presto, o almeno prima delle prossime elezioni, nel dimenticatoio. Un silenzio che fa leva sulla certezza che quelle telefonate riguardano solo alcune delle tante attenzioni particolari che gli amministratori hanno saputo riservare a destra e manca, creando un clima di complicità generale dove nessuno può dichiararsi innocente. Solo una sfortunata coincidenza ha voluto, quindi, che alcuni specifici fatti e nomi emergessero riguardo ad un metodo diffuso e accettato di gestione della ricostruzione che, in realtà, riguarda un numero molto maggiore di cittadini ed è meglio che tutti tacciano. Rimanere in silenzio sicuri che in tanti, in troppi, dovrebbero sentirsi in colpa per una “dritta”, un trattamento speciale su come ottenere i maggiori benefici presto dalle concessioni eccezionalmente permesse solo per permettere ai cittadini di ricostruire la città al più presto. D’altronde non ci sarebbe da stupirsi più di tanto. Anche il giornalista di Repubblica Giuseppe Caporale, nel docufilm “Colpa nostra”, tratto dall’omonimo libro, arrivava alla conclusione che solo una diffusa quanto scarsa cultura della legalità e dei principi democratici dei cittadini abruzzesi ha permesso nella nostra regione che si perpetuassero i continui scandali politici. Ecco: rimanere in silenzio significa ammettere che è “colpa nostra”, per buona pace di quei pochi poveri fessi che cercano ancora di rispettare i principi e i valori senza scendere a compromessi o farsi compromettere da “furbetti” di ogni ordine e grado.

Si sbaglia, però, chi ritiene che il prezzo da pagare della comoda scelta di rimanere in silenzio sia solo accettare questa triste e amara realtà. Il prezzo è molto più alto, statene certi. Il prezzo vero lo pagheranno tutti i cittadini destinati fatalmente ad assistere a una ricostruzione simile a quella dell’Irpinia. E un prezzo ancora maggiore lo pagheranno le nuove generazioni costrette, loro malgrado, a crescere in una città disordinata, brutta, obsoleta e in un certo senso incivile agli occhi di un turista proveniente da Paesi più evoluti e ricchi, come ad esempio la Danimarca. L’Aquila diventerebbe una città di cui nessuno potrebbe andare orgoglioso, se non chi è condannato a viverci.

L’Aquila ancora una volta come esempio lampante dei limiti dell’Italia e dell’incapacità degli italiani di affrancarsi da quel loro modo un po’ mafioso - così almeno lo definirebbe uno straniero - di fare i furbi, non accettando le regole e pensando solo al tornaconto personale. Ma anche agli occhi degli stessi connazionali accrescerebbe la convinzione che gli aquilani sono solo dei poveri “chianni e fotti” dai quali bisogna stare bene in guardia e, prima di assicuragli altri fondi per la ricostruzione, sarebbe meglio pensare alle altre e ben più serie priorità della Nazione.

Siamo sicuri che possiamo permetterci di pagare il prezzo del silenzio?

 

Foto: Alessandro Giangiulio/Flickr

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