Israele "vuole la pace, non uno stato bi-nazionale"
La volontà israeliana di arrivare ad un trattato di pace “conclusivo” con i palestinesi deve rispondere alle esigenze di sicurezza dello stato ebraico.
Questo è il punto di vista israeliano da sempre. Per raggiungere l’obiettivo il premier Netanyahu si è detto disposto a cedere il 90% del territorio della West Bank al futuro Stato di Palestina e di smantellare un certo numero di insediamenti coloniali. Lo afferma un anonimo ministro del governo, in una recente intervista ad Haaretz.
Sarebbe l'aggiornamento della vecchia politica "terra in cambio di pace" offerta subito dopo la guerra del 1967, ma rifiutata allora dalla controparte araba.
Netanyahu inoltre, in un’altra occasione altrettanto recente, avrebbe aggiunto che «Israele vuole la pace e non uno Stato bi-nazionale».
Non entro nel merito della possibile, stucchevole, diatriba sulla credibilità o meno di queste parole. Il leader israeliano non è diverso da qualsiasi altro politico al mondo, quindi sostanzialmente un bugiardo, che mente sapendo di mentire per arrivare ad uno scopo recondito. Solo lo sviluppo futuro dei fatti ci dirà quanto di vero e quanto di falso c’è in queste affermazioni.
Per ora prendiamole per buone e cerchiamo di leggere gli elementi che ci interessano: il rifiuto allo stato bi-nazionale è un’ottima notizia per l’indipendenza e la libertà del popolo palestinese. Libertà dall’occupazione israeliana si intende. Poi, casomai, se la dovrà vedere con il concetto di libertà così come la intendono i fondamentalisti del Corano; ma questo è un altro problema.
È lecito avere dei dubbi sulla volontà degli arabi israeliani a trasferirsi nel futuro Stato palestinese, ma anche questo sarà la storia prossima ventura a raccontarcelo. Per ora si sa che gli israeliani di etnia araba hanno chiesto una revisione delle parole dell'inno ufficiale, l’Hatikva (ma sono anni che lo chiedono) e di inserire i colori palestinesi nella bandiera bianco-azzurra israeliana. Cioè a trasformare almeno i simboli, per ora, dello stato "ebraico" in quelli di uno stato dei "suoi" cittadini, a qualsiasi etnia, cultura o religione appartengano.
Sarebbe curioso vedere un ebreo iraniano pretendere la stessa cosa nella "sua" repubblica Islamica, ma ovviamente la teocrazia iraniana non ha le contraddizioni della democrazia israeliana.
Nei fatti rimarrà comunque uno stato bi-nazionale, quello a maggioranza ebraica e minoranza araba che si chiama Israele, ma non dovrebbe nascere lo stato a (tendenziale) maggioranza araba e minoranza ebraica che potrebbe essere la futuribile Grande Israele se l’occupazione non dovesse mai vedere la fine. Cioè uno stato "ebraico" di nome e "arabo" di fatto che proporrebbe l'antico dilemma: ebraico ma non democratico o democratico ma non ebraico?
La questione della sicurezza resta però il punto dolente di tutta la questione; cioè, alla fine, della reale praticabilità della cessione di territorio e di smantellamento di alcuni insediamenti a prescindere dalla reale volontà israeliana di farlo. Per impedire che la Cisgiordania si riempia di missili il controllo israeliano non potrebbe rinunciare a controllare i confini esterni dello stato palestinese, in una sostanziale ripetizione di quello che ha fatto con la Striscia di Gaza.
Con la differenza che la West Bank è a un tiro di schioppo (è il caso di dirlo) da tutte le maggiori città israeliane: nel punto più stretto tra la “linea verde”, che potrebbe essere il futuro confine, e il mare, Israele non è più largo di una ventina di chilometri.
Sarebbe quindi indispensabile, per garantire allo stato ebraico sicurezza e fine delle ostilità in un quadro complessivo di accordo di pace che preveda la fine del controllo militare israeliano sulla Cisgiordania, un governo palestinese stabile, forte, credibile e riconosciuto socialmente, oltre che, è ovvio, seriamente intenzionato ad una fine del conflitto. Cioè l’esatto contrario di quello che sembra esistere nella realtà attuale.
Il mandato del presidente palestinese Mahmud Abbas, detto anche Abu Mazen, è scaduto da quattro anni e il mandato dell’attuale Parlamento è scaduto da tre. Ma di elezioni, libere e democratiche, non c’è traccia.
Nel frattempo sono stati fatti fuori due primi ministri nel giro di pochi mesi, prima l’economista Salam Fayyad, ben visto dal Fondo Monetario Internazionale, e poco dopo l’ex rettore dell’Università di Nablus, Rami Hamdallah, entrambi poco propensi a subire i diktat della ristretta cerchia di potenti di Fatah.
Domanda ovvia: perché non ci sono più le elezioni in Palestina, né quelle politiche né quelle presidenziali? Risposta altrettanto ovvia: perché i due concorrenti politici storicamente avversi - il Fatah di Abu Mazen che governa la West Bank e l’Hamas dominante a Gaza - sono ben lontani dall’aver accettato quel minimo di regole democratiche che prevedono una lotta politica più o meno corretta e l’alternanza di governo a seguito della libera espressione del voto popolare.
In altri termini qui conta il potere, non la volontà popolare. E nessuno dei due ha intenzione di lasciare il potere all’altro: ne va degli interessi economici - spesso personali in partiti che della corruzione hanno fatto prassi politica fin dai tempi del vecchio Arafat -, ma anche sociali e culturali. È ben noto il solco di irriducibile avversità tra l’Islam più o meno occidentalizzato della “democrazia” (per quanto ancora su basi spesso tribali) e quello tendenzialmente fondamentalista della sharia.
A questo punto è logico chiedersi anche se le parole, così esplicitamente ‘aperturiste’ di Netanyahu non siano state dette con tutta la tranquillità derivante dal fatto che, dall’altra parte, non ci sarebbe mai stato nessuno di affidabile in grado di dare a Israele le garanzie richieste.
Così diventa molto facile offrire con grande prodigalità ciò che si sa già essere respinto (o non accolto) a priori. Insomma sembra un altro semplice giro di valzer, in attesa che i Grandi Giochi si chiariscano una volta per tutte il quel tragico risiko siriano che ha già spezzato la vita a decine di migliaia di uomini, donne e bambini (ma di manifestazioni pacifiste manco l’ombra).
In attesa cioè che lo scontro fra i giganti dell'Islam sciita e quelli dell'Islam sunnita si sedimenti in un nuovo equilibrio che permetta alla questione palestinese di tornare al centro dell'attenzione araba. Forse in modo più pragmatico di quanto sia stato finora, perché quello che si è visto finora non è stato altro che un processo di plateale autodistruzione politica e di impraticabilità del processo di autodeterminazione, mascherato da grande e suggestivo idealismo resistenziale.
I palestinesi sono sempre stati vittime di due nemici, quello dichiarato dello stato ebraico e quello che, ufficialmente, li rappresentava. Almeno uno dei due dovrà sparire prima che si possa parlare di Stato di Palestina. Indovinate quale ?
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