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( In )tra( per )culturando: analisi confronto con Alcide Pierantozzi - Parte II

La prima parte rintracciabile QUI.


Avevi ventun’anni quando è stato pubblicato ‘Uno in diviso’. Cos’è cambiato (se è cambiato qualcosa) a distanza di tre anni sul piano degli interessi, gli ascolti, le ricerche, le ossessioni legate al ‘mondo delle storie e della scrittura’?
All’esterno sono cambiate molte cose, ho delle scadenze da rispettare, devo tener conto del parere di più persone e seguo i consigli del mio agente. Ma di fatto, all’interno, non è cambiato nulla: la passione per quello che faccio è immutata, se non addirittura accresciuta. Sul piano degli interessi mi sto dedicando un po’ più alla letteratura inglese e mitteleuropea, aree queste in cui avevo diverse lacune, e cerco di lavorare in maniera più approfondita sulle strutture del testo. Spero sempre di fare meglio, di crescere.
"Ché gli occhi della mia generazione hanno compreso qualcosa che nessuno aveva mai capito prima cioè che, quando si è stanchi di vivere - quando si è stanchi di vivere a vent’anni - le vie dell’Universo all’improvviso diventano un letto scomodo con le lenzuola che puzzano di morte. [...] E provo pietà per chi mi succede, se penso al mio mondo, quello che mi include: il mondo [...] dei depressi e degli sfervorati: semidei dalla voce stonata, gente che si grida in faccia sulla piazza domenicale, che vuole dire senza dire in questo buffo e stantio teatro dell’assurdo. [...] Gente che monopolizza la nuova cultura solo perché sorridente o amica dell’amico di. Che svergogna la settima arte e scaracchia libretti da strapazzo, scrive come mangia e non parla non più perché non ha niente da dire ma soltanto perché non sa parlare, è timida, non ha fatto le scuole. [...] La stessa gente che ha ammazzato Pasolini e adesso lo legge, gli stessi idioti che hanno rubato la cattedra di Svevo e adesso bocciano per autopromuoversi.
(pag. 168-169) 

Queste ultime pagine del romanzo sono state spesso citate, hanno attirato l’attenzione. La stanchezza di un vivere che si trascina. Rabbia e pietà. Consapevolezza e lucida analisi di un certo ’fare cultura’ o ’credere di esserlo’. 

Mi chiedevo dov’è finito il desiderio ’di cambiare il mondo, o più semplicemente di provare a conoscerlo’. Dopo i tratteggi, il riferimento a Pasolini a cui è dedicato il libro, e il ’dire senza dire in questo buffo e stantio teatro dell’assurdo’, quali sono oggi le tue posizioni in questo mondo di ’cultura controversa’ fatta di marketing, non contenuti semplici e scontati, standardizzazioni e trend?
Credo si possano fare anche buoni libri che vendono. Si pensi a Simenon e all’universo che è riuscito a costruire. Insomma, per quel che mi riguarda, davanti a un libro che ha venduto mille copie non sono meno scettico che davanti a un best-seller. Chiaramente ci sono delle eccezioni, per cui un libro mediocre, se è ben sostenuto dal suo editore, può raggiungere un pubblico molto vasto; viceversa cadono nell’oblio romanzi meravigliosi. Ma cadrebbe in errore anche chi pensasse che se un romanzo non vende è perché troppo difficile o “letterario”, così come non vale sempre la regola che un prodotto facile ha successo. Se così fosse, quasi tutti i libri starebbero nelle classifiche, perché la maggior parte di essi appartiene alla categoria del prodotto di consumo. Invece, sono sempre una serie di coincidenze a decretare il successo di un libro, e anche il campo del marketing editoriale deve abbandonarsi alla fortuna. Per quel che mi riguarda, penso solo a scrivere e a disinteressarmi di tutto quanto verrà dopo…
Navigando in rete, ho rintracciato questo tuo pezzo pubblicato da Davide Bregola nel giugno 2006 a proposito del romanzo del XXI secolo. Scrivi: "io, come scrittore, come vita singola, mi esprimo solo attraverso la metafora e tutto il resto è recupero filosofico, invettiva pasoliniana, nuovo perfetto paradigma. Le allegorie, Dante docet, spaventano il lettore, ogni lettore. Non possiamo più crogiolarci nel dolore. C’è troppa bellezza nel mondo.

Allora… abbasso le censure. Allora abbasso le sperimentazioni fini a se stesse. 

Allora abbasso tutto ciò che non è vuoto, tutto quello che non è infinito. Tutto quello che, nonostante tutto questo, non arriva al popolo."  
Alcune di queste tue considerazioni si ritrovano in ‘Uno in diviso’ (“I libri ci hanno insegnato che la metafora ha un significato indispensabile, e che la buccia di un limone può diventare scorza di sole” -pag.80).
Rovesciando la logica del discorso in questione, lo scrittore del ventunesimo secolo cos’è che dovrebbe cercare, esprimere, studiare, affrontare attraverso le narrazioni? Qual è, secondo te, la ’battaglia’ (se c’è) combattuta mescolando parole, simboli, sensi, ricostruzioni, analisi, storie?
Nessuna battaglia, per carità! L’unica battaglia che si dovrebbe combattere è per la letteratura. Lo scrittore non ha alcun dovere, se non quello di scrivere bei libri. Può sembrare ovvio, ma molto spesso basta scrivere un brutto libro con una buona intenzione per essere considerati scrittori. È un fenomeno al quale si assiste praticamente ogni giorno.
C’è, in ‘Uno in diviso’ una citazione da ‘Lo strano caso del Dr.Jekyll e Mr.Hyde’ di Stevenson che riconosce le ‘mescolanze’. La tematica del dualismo, il Bene e il Male che si incastrano, gli stessi protagonisti gemelli (in)diviso. E precise stoccate al lettore come “Hai detto che il mondo è doppio, che se una parte è bianca come te, l’altra è inevitabilmente doppia come me”(pag.163). Mi spieghi dunque questo simbolismo?
Diciamo che il mio scopo era mostrare l’ambiguità di questo personaggio doppio. Due parti definite e molto diverse, costrette a vivere insieme: una suggestione che è stata per me l’intero simbolo della libertà artistica: andare da un corpo all’altro e confondere il primo col secondo. Forse rispondendo a questa domanda posso precisare anche quella precedente: un dovere, in letteratura, c’è. Ed è quello di non tracciare mai una linea di demarcazione tra buoni e cattivi, come spesso accade nella vita. La grandezza dei libri sta proprio nel fatto che possono tenere il piede in due staffe.
Un’altra tematica che ricorre, bisbiglia all’orecchio del lettore, è la ‘follia’.
“Sostengo che quello dell’infinità sia il più ovvio, il più perfetto dei pensieri pensabili perché l’idea illimitata ci scaglia direttamente nelle tenebre, accosta alla follia”
(pag.16) Ma anche: “Nella vita, se sei predisposto alla follia, puoi sapere sin da subito cosa ne sarà di te, quale sarà il tuo nuovo, indefesso fantasma” (pag.30)  
Ma è folle anche l’uomo che nel buio stringe una forchetta destinato a una precisa pratica omosessuale. Poi la ‘matta di Vallecupa’ e l’interrogativo sospeso ‘La pazzia è perversa, vero?’ 
Ed è pazza Ana che getta i crocifissi tra i binari, o almeno lo è per il prete che la vede e le grida contro. Perfino il Diavolo che piange mentre le sue corna crescono, lo è. Pazzo per l’appunto.  
Cos’è dunque la pazzia in ‘Uno in diviso’? E cos’è per te?
Tutto quello che ci circonda è follia. La nostra idea del tempo, il nostro bisogno d’amore, l’incapacità di riconoscere la dualità della natura umana, la convinzione che le cose escano dal niente e al niente ritornino, con la morte. Uscire dalla follia è impensabile, solo la letteratura può avvicinarsi a qualcosa di simile. Perché entrandovi, nella follia, diventa Non-follia, una cosa ben diversa dalla razionalità.
Hai frequentato la facoltà di filosofia dell’università Cattolica di Milano. E le incursioni filosofiche in questo romanzo sono evidenti, al punto che alcuni le hanno definite troppo pressanti, fini a sé stesse. Quel ‘recupero filosofico’ che entra nella narrazione, preme e spinge, quanto è importante per te? Cosa aggiunge, lascia?
È importante nella misura in cui va ad incrementare l’autonomia del libro. Scrivendo, io mi disinteresso totalmente del lettore. Tuttavia, quel minimo di intelligibilità stabilita deriva da un nucleo tematico che ho ben chiaro nella testa (in Uno in diviso era il manicheismo, ne L’Uomo e il suo amore l’inesistenza della morte), dal quale si dipartono le strade della mia autonomia. Detto in soldoni, una volta catturato il messaggio di fondo, faccio quello che mi pare. Inoltre in Uno in diviso il recupero filosofico non serve solo a raccontare dei concetti, ma anche a creare un’atmosfera di freddezza quasi scientifica attorno ai fatti narrati.
Infine, è stata notata una certa ‘vicinanza’ tra ‘Uno in diviso’ e la ‘Trilogia della città di K’ di Kristof Agota. Scrive Gianfranco Franchi (narratore, operatore culturale ed editoriale): “È un romanzo lirico e crudo, decisamente vicino alla lezione, stilistica e concettuale, della magistrale Kristof della “Trilogia della città di K”: stesso massimalismo, stessa dedizione al dubbio sulla natura della realtà (o: di ogni cosa), stessi protagonisti – due gemelli – qui addirittura siamesi (lettura psicanalitica sarebbe viatico ideale).” Da autore, ti ritrovi in questa analisi? La genesi del romanzo ha ‘sfiorato’ anche la Kristof?
Non so se c’è stata un’influenza diretta, credo che l’influenza maggiore per Uno in diviso derivasse dai testi di mistica medievale, che studiavo in quel periodo all’università, e da molti film horror, mia passione da sempre. Posso dire che quando ho letto La trilogia della città di K ne sono rimasto molto colpito, questo me lo ricordo bene. Credo comunque che sia un tantino esagerato considerare il mio libro una variazione sul tema rispetto all’opera della Kristof.
 
Ringrazio Alcide Pierantozzi.
E Gabriele Dadati che nella prima parte ha risposto alla domanda ‘Chi è Alcide Pierantozzi?’ proponendo così un altro ‘angolo di lettura’.

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