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(In)ter(per)culturando: annotazioni attorno a ’Lettera di una sconosciuta’ di Stefan Zweig

<Non mi daresti una delle tue rose bianche?> dissi. <Volentieri> fu la tua risposta e ne prendesti subito una. <Ma forse ti sono state donate da una donna, da una donna che ti ama?> suggerii. <Forse,> rispondesti tu <non lo so. Mi sono state donate e non so da chi; è per questo che le amo tanto>. Ti guardai. <Magari proprio da una donna che hai dimenticato!>.
C’era stupore nella tua espressione. Io ti fissavo. <Riconoscimi, riconoscimi finalmente!> gridava il mo sguardo. Ma i tuoi occhi sorridevano, amabili e ignari. Mi baciasti d nuovo, ma no mi riconoscesti.
(pag.78)
 
‘Lettera di una sconosciuta’ è un libro ‘piccolo’, ottantatre pagine del noto formato ‘piccola biblioteca Adelphi’, caratteri di media grandezza, si legge agevolmente.
E’ un racconto lungo, epistolare fatta eccezione per le prime e ultime pagine, che necessità di una breve contestualizzazione.
 
Stefan Zweig (Vienna, 1881, Petropolis, 1942), laureatosi in filosofia a Vienna nel 1904, ha scritto novelle e biografie che lo hanno reso attorno al 1933, uno degli autori più tradotti di quegli anni al punto che i nazisti bruciarono le sue opere e nel 1940, assieme alla moglie, si rifugiò in Brasile dove si suicidò due anno dopo. Viaggiò molto, in Europa, arrivando ad amarne i diversi luoghi visitati, respirati, non si è mai considerato ‘viennese’ piuttosto ‘europeo’ per appartenenza naturale. Fu proprio l’avvento nazista che lo convinse a lasciare l’Europa che sentiva e vedeva prossima alla distruzione.
Dunque, non soltanto un uomo colto, stimato nonché autore di numerose opere differenti e diffuse in tutt’Europa, ma anche persona estremamente sensibile, dalle affezioni fonde e mai celate.
 
Da qui è possibile leggere ‘Lettera di una sconosciuta’ evitando di lasciarsi ingoiare dai cliché che oggi, nel 2010, si legano con estrema facilità e abusivismo alle storie d’amore, specie a quelle estreme, durature, dove sacrifici, rinunce, dedizione sono ingredienti primari dai sapori quasi incerti, per chi oggi legge e ci si scontra.

Sostanzialmente si tratta di questo: uno scrittore quarantenne riceve una lettera, “A te, che mai mi hai conosciuta” recita l’intestazione. Inizia così un viaggio fulminante, un’unica sorsata altamente alcolica, intensissima, dentro la voce di una donna che scrive all’amato sapendo che mai, l’uomo, l’ha veramente notata, ricordata, men che meno ha provato per lei ‘qualcosa’ che si sia spinto oltre il desiderio di un paio di notti, diluite in anni di vicine distanze. L’intera storia è raccontata in questa lettera, da una donna destinata a rimanere senza nome, con un corpo dai tratti appena accennati ma bella e desiderabile al punto che, per miseria e disperazione, sarà costretta a usare queste sue doti per crescere il figlio.

I colpi di scena non mancano, sebbene la narrazione appaia lineare, quasi piatta nell’incedere, frutto della scelta epistolare che pare frenarne continuamente gli svolgimenti. Pare. In realtà è proprio grazie a quest’apparente lentezza che il lettore sorseggia il libro gustandone ogni sfumatura e immaginandosi continuamente quell’uomo, lo scrittore, appena accennato nella prima pagina, intento a leggere la stessa lettera scoprendo gradualmente, connessioni con la propria vita che neanche ricordava, che credeva uguali a molti altri eventi vissuti poi relegati alle memorie in serie, così come lo sono state le numerose donne con cui è stato, senza volti o tracce tangibili da trattenere.

A questo punto è facile pensare che in tutto questo, non ci sia nulla di nuovo.
E, in effetti così è.
Un uomo talentuoso, uno scrittore affermato, nel pieno della sua vita che gestisce godendone a pieno, evitando ogni possibile legame, cedendo ai piaceri della carne con donne ogni volta diverse, che per lui non hanno alcun significato eccetto la leggerezza del momento. Un uomo egoista, in fondo, e cieco verso i sentimenti altrui.

Per contro, dall’altra parte della pagina, una donna senza nome che lo ha amato sin da ragazzina, lo ha atteso e seguito per anni, si è accontentata di leggerne le opere, sbirciarne i piccoli gesti quotidiani dallo spioncino della porta. Finché in alcune, rare e preziose occasioni, è riuscita a stare con lui, rispettando la leggerezza di quest’uomo che sempre amerà, a cui si dona totalmente e senza riserva e mai, mai per una riga della lunga lettera, maledirà o contraddirà. Lei, donna innamorata, la si potrebbe definire perfino ossessionata, dedica al sacrificio estremo, la rinuncia a sé stessa, a essere ricambiata nell’affezione più fonda e intensa, pur di continuare a sentirsi legata a quell’unico uomo del quale accetta tutto, difetti compresi, e sa tutto, specie i difetti, per l’appunto.

Nulla di nuovo, si accennava poco sopra. Sì, nulla di nuovo. Eppure, sebbene oggi nel 2010, molto è cambiato nell’educazione femminile quanto nelle dinamiche sociali, i sentimenti di qualunque tipo ma in particolari quelli dell’amore – loro – non sono affatto mutati di conseguenza.

Ecco perché, un racconto scritto nel 1922 resta nel 2010 fortemente concreto nelle scarnificazioni. Forse non per immedesimazione (a me, ad esempio, non è successo: già alla decima pagina avrei voluto riempire il protagonista di ‘male parole’, alla ventesima invece meditavo di colpirlo fisicamente in vario modo), piuttosto per comprensione di quei sensi che non hanno tanto a che fare con gli snodi nudi e crudi della trama in sé, quanto con quelle affezioni che se ne fregano della logica, della razionalità e resistono, non se ne vanno nemmeno davanti a evidenza di solitudine, unilateralità o peggio: miseria, e consapevolezze che nulla potrà mutare, nessun uso o costume o società e regole può così tanto, mai.

A quante donne, di ieri e di oggi, è capitato di innamorarsi di uomini incapaci di ricambiarle? A quante donne è successo di rimanere legate a questi uomini pur dovendo prendere decisioni delicate, anche economiche? A quante donne, resta sulla pelle un’appartenenza che è fedeltà in senso lato, finché ‘morte non ci separi’ nonostante la quotidianità, le apparenze, le lontananze e i silenzi?
Secondo me, anche in questo momento, c’è un numero imprecisato di mani alzate.

E mi spingo un gradino oltre: abbattendo i cliché a cui oggi siamo assuefatti, io non credo sia una storia di genere, dunque nella fattispecie femminile, che racconta e radiografa dinamiche ‘delle donne’. Nel 1922 sarebbe stato probabilmente ‘complicato’, magari anche scandaloso, un’inversione nei ruoli narrativi. Ma, in realtà, ieri e oggi, esistono ‘lettere di sconosciuti’ ovunque, donne e uomini, che in vario modo, tra equilibri mutevoli, bucati, taciuti, vorrebbero una volta – una sola volta – dire all’amat(a)o tutto quello che mai hanno potuto e silenziosamente hanno provato lo stesso. Nell’epoca delle frette, le anaffettività dilaganti, distruttive, nel tempo dei tocchi non carnali, dove quasi tutto si fa attraverso tecnologie sterili, fredde; in tutto questo io credo esistano ancora gli amori irrazionali, totalitari, che forse mutano ma non ce la fanno, a scomparire, mai del tutto, mai veramente.
 
Mi sento sollevata: ti ho detto ogni cosa, adesso sai, no, intuisci solamente, quanto io ti abbia amato, e tuttavia questo amore non ti è di peso. Non ti mancherò, questo mi consola. Nulla cambierà nella tua vita bella e brillante…
(pag.81)
 
Ci sono poi, e affiorano lentamente, proseguendo nella lettura, tematiche fonde, che la trattazione epistolare inserisce silenziosamente ma rafforza nei sensi, entro l’immediatezza di un narratore la cui voce è nuda e protesa verso memorie immutabili (perché - senza voler svelare nodi cruciali della trama - mentre lo scrittore legge la lettera, chi l’ha scritta sa che nulla potrà cambiare ormai).
Tematiche che anche oggi lacerano, scatenano dibattiti irrisolti, piani destabilizzanti.
Come la condizione di maternità vissuta indirettamente (e in parte in-consapevolmente) come riflesso diretto del sentimento verso l’amato, del cui frutto è il figlio, adorato, venerato, curato e amato immensamente anche - o forse perfino ’prima’ - in quanto parte (frammento) di quell’uomo, di quel legame indissolubile, di quel bisogno di appartenenza che dalla carne porta ad altra carne, destinata a crescere, a essere poi altro, eppure gli sfilacciamenti col padre, trasformano nella madre i corpi in uno, l’affezione in un’unica grande bolla in cui rifugiarsi e donarsi ogni momento (nella fattispecie della storia, il figlio diventa un sostitutivo del padre che lei sa di non aver mai avuto, sebbene insista debolmente a credere nel futuro ma questo credere è facilitato, reso possibile proprio da quel figlio nato da lui, dall’amato, non da un uomo qualunque).
 
Anche la relazione stretta e polivalente tra contatto di pelle e comunicazione, trova in questo libro affondi importanti. E’ una storia di incomunicazioni, questa, una storia dove uno dei due protagonisti semplicemente ignora (e niente o nessuno ne muta alcunché nel vivere finché è ancora possibile comunicare) e l’altro, la donna, accetta tale condizione tentando di farne breccia in rari momenti carnali predestinati a scivolare comunque nell’incomunicazione. Ma quando le pelli si toccano, i corpi si trovano, ciò che si dicono è probabilmente la massima forma di condivisione a cui questi due personaggi posso aspirare. Senza voler trascurare, tra l’altro, che proprio da uno di questi rari contatti intimi e carnali, nascerà un figlio.
 
 
Scheda del libro sul sito dell’editore.

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