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(In)ter(per)culturando: alcune analisi-riflessioni su ’Quando verrai’ di Laura Pugno

Eva ascolta, come se si trattasse di una fiaba. Le fiabe sono crudeli, diceva Leila, io non le ricordo per questo, perché le fiabe sono cattive.
(pag.78)
 
La prima parola che mi è ri-tornata in mente, chiudendo ‘Quando verrai’ è favola. Una favola crudele. Una favola sull’oggi. Dove la morale si cela entro dialoghi sospesi, gesti e svolgimenti. E’ una favola di corpi. Pregna di corpi che essendo ciò che sono, e toccando, scatenano un mondo di sensi, percezioni e conseguenze. E lo è, favola, nei contorni fantastici sfocati, che flettono intenti senza deformarli, ricreando situazioni plausibili in quel ‘qualcosa in più’ che sfugge al reale stesso restandone abbracciato.
 
E’ una storia strisciante, non lunga, non complessa, non intasata da personaggi o snodi. E’ la storia di una bambina (Eva). Di una famiglia spezzata, senza padre, con una madre destinata a finire dietro le quinte presto, un compagno della madre che le dedica attenzioni poco paterne, un altro uomo che la rapisce poi la salva. E’ la storia di corpi all’apparenza comuni, il corpo di una bambina (a cui si affiancherà quello di un uomo, infine quello di un’altra donna) con un unico neo, deformazione visibile, malattia (sempre all’apparenza) curabile denominata ‘psoriasi’. Ma la psoriasi (alcune informazioni generiche da wikipedia) è altro. Le macchie, scaglie di pelle che prudono, lesioni, danno alla giovane protagonista un dono (anche se nel romanzo non è mai definito così, tutt’altro). Un dono che è anche diversità evidente. Che è margine entro cui rintanarsi. Toccando gli altri a Eva accade qualcosa. Ed è proprio per quel qualcosa che vorrebbe e non vorrebbe toccare. Mentre la pelle che appare a occhio nudo malata non essendolo, scatena anaffettività specialmente nella madre che fa di tutto per non sfiorarla neanche per sbaglio, che teme una sorta di ‘contagio’.
 
I corpi di questo romanzo sono diretta espressione di ciò che sono i personaggi. Così i corpi di Eva, Ethan e Montserrat sono magri, consumati, piegati dalle fatiche, da quel qualcosa che li allontana dal resto, che fa vedere attraverso il contatto e che restituisce consapevolezze pesantissime.
 
Era sulla quarantina, magro, con quello che una volta doveva essere stato un corpo forte, i capelli grigio ferro. Sembrava un vagabondo.
(pag. 6 – presentazione di Ethan)
 
Viceversa, per altri personaggi il corpo è espressione di un vivere che sta tra maglie degradate ma che nella fatica ha trovato modalità diverse, per sopravvivere. Per stanare piaceri o sfoghi.
 
Stasi era rimasto solo, sulla spiaggia, a bere birra, si era tolo appena la camicia scoprendo un corpo muscolo che nel giro di qualche anno avrebbe cominciato a disfarsi. Era un uomo alto, dai capelli chiarissimi e gli occhi di un celeste che sembravano non mettere a fuoco, e spesso nei mercati lo prendevano per un immigrato.
(pag.10 – presentazione di Stasi, il compagno della madre)
 
Eva sta crescendo, nel romando il tempo accelera e rallenta entro un’evoluzione che non è solo temporale. Eva si sta scoprendo. Per ciò che è. Entro un destino che non conosceva. Liberandosi da un vivere che era gabbia bucata dove ciò che lei è non era nulla, aveva a mala pena un nome che ventilava ipotesi di contagio, psoriasi. Come se il nome bastasse. Mentre le cure mediche non miglioravano affatto la condizione di una pelle destinata a restare per sempre in quel modo, imperfetta, macchiata, urticante.
 
Eva finisce circondata dalla morte. Da quella che il suo corpo le restituisce. Da quella di qualcuno (più d’uno in realtà) a lei vicino. Da quella che lei stessa sfiora più volte, fuggendo, aspettando, nascondendosi.
 
La scrittura della Pugno cadenza, avvolge senza eccedere. Mai una sbavatura, un’accelerazione, un rallentamento che possa far alzare la testa al lettore per respirare. Entro un certo ritmo la Pugno tesse pazienti maglie. Senza fretta. Attraverso un periodare secco, spesso breve ma legato da punteggiatura che non è chiusura ma proseguo. Aggettivazione precisa, intensa e sensoriale in alcuni dettagli significativi. La scrittura della Pugno è un composito denso, dove le miscelazioni restituiscono un fluire di gesti, descrizioni, frame, sequenze, dialoghi, pensieri. Tutto entro punti e virgole. In quest’ottica, la scelta di non individuare i discorsi diretti con la punteggiatura a cui ormai il lettore è abituato, diventa diretta conseguenza dello stile stesso. Di questo flusso di immagini, parole, carne e visioni.
 
Ci sono molti sensi entro questa storia. Sensi che tendono a capovolgere apparenze. Che restituiscono una fisicità potente proprio per l’imperfezione denominata malattia. Che ricollocano un rapimento entro significati di appartenenza ‘di pelle’ che è benedizione.
 
La pugno si avvale dello strumento della ‘ripetizione’ come già altri autori italiani contemporanei. E lo fa con delicatezza, intelligenza, puntando fari su significati e ritmi. Non c’è una virgola fuori posto, leggendo e respirando le pagine si percepisce un senso di armonia nell’evidente stonatura di una trama difficile, visionaria eppure concreta, palpabile.
 
Ethan l’ha lasciata andare. L’ha lasciata andare, ma potrebbe tornare a riprenderla, tornare un’altra volta e portarla via. Eva si asciuga la bocca con il dorso della mano, e senza sapere perché è sicura che Ethan non tornerà.
(pag. 34)
 
I suoi ricordi cominciano da qui. C’è un buco, da quando ha aperto la porta della roulotte a quando è tornata a casa. In quel buco il vestito rosa è scomparso. Sa che è scappata di casa, ma non se lo ricorda. A volte dal buco affiora un nome.
(pag.39)
 
Ma c’è anche un altro senso, tra i tocchi, entro le maglie di una carnalità che divide personaggi, distingue sani da malati. Per tre di loro, già citati sopra, le macchie, le finte psoriasi, sono diversità che allontanano dagli altri. Quegli altri che facilmente li considerano appestati e che loro vorrebbero e non vorrebbero toccare (Eva è spesso combattuta, Ethan indossa perfino dei guanti pur di evitare ogni contatto, Montserrat è costretta a toccare per lavoro). Ma le macchie, la pelle diversa, si riconosce. Tra loro, toccandosi non provano nulla. E in quel nulla, nell’assenza di percezioni, visioni, verdetti, i protagonisti trovano un sollievo ristoratore. Al punto da cercarlo, invertendo le dinamiche del resto, quel tocco tra loro.
 
Le dita di Eva sfiorano le sue mani, ed è come toccare una pietra lasciata dal mare sulla sabbia, come il sasso che Eva ha raccolto ieri, sulla strada di mare, e che ora è sul comodino.
(pag.82)
 
Eva riesce a pensare che il corpo di Montserrat è vuoto come un barattolo di vetro, bianco come una stoffa, non c’è morte dentro.
(pag.102)
 
C’è un evidente legame bidimensionale tra tocchi e morte, corpi e fine.
 
Il corpo di Eva parla per lei, racconta ciò che prova, sente. Quando è impaurita, esausta, terrorizzata, attenta, disperata. Il corpo di Eva racconta di tanta fatica, di un male che da dentro si aggancia ad altra carne. Ne è manifestazione, sottolineatura.
 
Chiude gli occhi. Sente la nausea che le sale su dallo stomaco e le taglia le gambe, la costringe a scivolare a terra sull’erba grassa e umida da cui si è appena rialzata, nascosta nel buio, scivolare in ginocchio, poi lasciarsi cadere, raccogliendo le ginocchia tra le braccia, come se potesse dormire, lasciarsi andare al dolore.
(pag.62)
 
E sul finale, i dialoghi incompleti, spezzati, che fanno sentire un preciso stato di sospensione, attesa, incertezza. Fors’anche confusione. Questi dialoghi attanagliano fino all’ultima pagina. Che non cede a un finale propriamente detto ma riassorbe la favola restituendo il volto di una bambina che da una rampa di scale dice: sono qui. Sono qui.

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