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(In)ter(per)culturando: Attese di Elena Loewenthal

Quel giorno, gli occhi di Elvira e quelli di Ariodante erano già divenuti fumo e, anche volendo, nessuno avrebbe più potuto chiuderli per sempre con una presa di terra d'Israele cucita dentro quattro fazzoletti ricavati da un vecchio velo che nessuno voleva più usare - e che era finito dimenticato prima din un armadio e poi dentro un altro.
(pag.182 - fine della storia 'Terra')

E' una scrittura estremamente lirica, quella a far da padrona in Attese di Elena Loewenthal, Bompiani, composto da quattro racconti, a cadenzare quattro stati (Aria, Fuoco, Terra, Acqua) o sarebbe più giusto definirle quattro appartenenze a distinguere protagoniste e realtà diverse che si snodano lungo un secolo, il novecento, e riunite dal leitmotiv dell'attesa, dell'aspettare con la pazienza certa, sicura che un senso - in quell'aspettare - c'è, un senso affettivamente evidente tra cose, persone e luoghi. Ma anche un pezzo di stoffa a collegare generazioni.

E' una scrittura fortemente impregnata d'atmosfere precise, tese a una realtà a tratti malinconica, sospesa al limite del nebuloso in alcune scene. La Loewenthal attraverso scelte linguistiche, stilistiche e voci, cerca di ricreare atmosfere, stati d'animo intimi di donne che nelle diversità mostrano fragilità, credenze, scelte e certezze ma che, soprattutto, non negano l'amore nemmeno se ancora lo devono incontrare.

Storie pregne d'affezioni, di quell'amore che si crede in quanto tale, che s'accetta per ciò che è o che si vuole sia, in circostanze anche avverse o poco comode nella pratica quanto più queste donne ci si aggrappano, aspettano come fosse l'unica cosa possibile, l'unica cosa da fare.

Pubblicato in prima edizione nel gennaio 2004 (attualmente è disponibile un'altra edizione del 2006, tra i 'tascabili narrativa' dello stesso editore, Bompiani), questo libro ha oggi un gusto probabilmente più lontano, amaro, in alcuni casi faticoso, di quanto potesse avere sette anni fa. Probabilmente perché le aspettative sociali, le evoluzioni specie negli ultimi anni delle donne, dei loro corpi, delle strumentalizzazioni, i dibattimenti attorno a esse hanno investito l'Italia e in parte ne hanno spostato (di qualche centimetro, forse di meno) le posizioni ma soprattutto l'immaginario nonché il bisogno d'una identità meno debole, meno fragile, meno subordinata, meno manipolabile e anche (soprattutto) un'identità meno legata alle c.d. 'cose di donne' (il cui significato complessivo muta e sfugge spesso, sottitendendo a volte cose poco concrete, poco realistiche, vittimistiche per dna, propense a lasciare il proprio destino in mano ad altri, specialmente se uomini).

Le brevi considerazioni di cui sopra, per notare quanto oggi questo libro potrebbe trovare altri sapori, altri aromi e ragionamenti proprio da quel mondo femminile che sembra in rabbioso subbuglio (eppure non si sposta che di pochi centrimetri in avanti e in dietro), un mondo che a parole rifiuta cliché e dipendenze, ma che poi cede alle apparenze, e spesso scende a patti con quelle logiche di potere e denaro che da secoli ha un sesso dominante, quello maschile, ma si reggono comodamente su entrambi i generi.

La poetica della Loewenthal richiede pazienza, ascolto, attesa per quelle atmosfere, quei non luoghi che si ricreano tra le pagine.

Forse l'immagine della donna che aspetta non convince più, non ci si vuole più credere per personale convinzione o per necessità sociale, eppure in queste storie le attese si sensano, non sono meri espedienti romantici per far palpitare cuori e tenere in sospeso amori e corpi. Sono necessità intime. Sono scelte gestite, volute.

Si fatica oggi, nel 2011, a immaginare una pubblicazione a livello nazionale per questo libro, proprio per quell'attesa che chiede, anzi impone, al lettore tra la lingua e le trame all'interno di tessuti dominati dal femminile e dalle atmosfere rarefatte d'un secolo così vicino a noi eppure dalle sembianze e apparenze fin troppo lontane.

Comunque, la terra d'Israele era rimasta per tanti anni dimenticata, in fondo all'armadio. Ora Elvira la prese, avveolse meticolosamente la scatola in un pezzo di stoffa, e si accinse a metterla nella valigia. Per un attimo, guardò l'involto - e un altro sprazzo di memoria le arrivò dentro la testa, proprio dietro gli occhi. Prima ancora di distinguere il ricordo, la fitta scese dagli occhi in gola, annodò qualcosa lì, e poi scivolò giù lungo la trachea, a fermare il respiro nei polmoni. Era uno dei panni che le aveva dato il dottor Mario alla nascita della loro primogenita, che era ormai una bambinona ben tornita, che assomigliava tantissimo alla madre, nelle misure e nel sorriso. O meglio, era quello strano telo dalla natura incerta: seta opaca, pizzo ruvido di un colore indefinibile e con una consistenza lieve ma persistente.
(pag.164-165)

 

 

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La scheda del libro dal sito dell'editore.

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