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In Egitto la rivoluzione non è finita

 

Sarebbe un errore ricavare conclusioni affrettate dalle grandi manifestazioni che hanno fatto vacillare il potere del presidente Morsi quando, forte di una maggioranza parlamentare abbastanza larga, ha voluto forzare la mano facendo votare una sua costituzione senza dibattito. La promessa di sottoporla poi a un referendum affrettato che avrebbe dovuto trasformarsi in un plebiscito non ha ovviamente convinto il largo e composito fronte delle opposizioni, che è riuscito ad assediare il palazzo presidenziale.

 

 

È presto per dire se da questa crisi si uscirà con una sconfitta definitiva di Morsi. Per batterlo sarà necessario che le opposizioni non si fermino alla denuncia del suo attacco alla magistratura, che tra l’altro è quella ereditata dal regime di Mubarak, e che può quindi comprensibilmente essere detestata da una parte della popolazione, anche perché ha assolto molti scherani di Mubarak.

L’indipendenza della magistratura è una favola in Egitto, non meno che in Italia, come dimostrano infiniti esempi, compresa l’ultima decisione squisitamente politica della nostra Corte Costituzionale sull’intangibilità del presidente. Non è la destituzione dei magistrati che hanno servito per anni Mubarak che gli si può rimproverare: magari avesse osato farlo il Togliatti ministro della Giustizia, che non toccò nessuno di quelli che avevano fatto carriera sotto il fascismo, e anzi di giudici fascisti si servì per studiare le norme della infame amnistia che salvò tanti criminali e collaborazionisti, in nome dell’unità nazionale.

Le conclusioni affrettate da evitare sono due: la prima è di dare per finita la rivoluzione egiziana. Mi pare che abbia manifestato una vitalità straordinaria e che non si accontenti delle promesse melliflue del presidente, una specie di Kerenski che parla a nome della rivoluzione per affossarla o imbrigliarla. La sinistra europea e soprattutto italiana che non aveva capito fin dall’inizio la profondità di queste rivoluzioni, e ha visto solo sempre le “manovre imperialiste” (che c’erano come ci sono sempre e ovunque, ma non spiegano niente, e tanto meno perché gli imperialisti avrebbero deciso di sbarazzarsi di fedeli servitori scatenando contro di loro la piazza…), o la inevitabile presenza di rappresentanti di concezioni più o meno integraliste, che hanno trovato spazio proprio perché erano state represse spietatamente dalle vecchie dittature, e ha interpretato poi ogni arretramento momentaneo della rivoluzione come… la prova che non c’era stata nessuna rivoluzione.

La seconda conclusione pericolosa è quella di vedere in Morsi solo un dittatore: lo è, naturalmente, nel senso che va avanti a colpi di maggioranza, ma non più di quanto fa oggi Monti o hanno fatto a loro tempo Prodi o Berlusconi, ricorrendo a voti di fiducia a ripetizione per abbreviare o sopprimere la discussione. Lo dico non per simpatia per Morsi, ma per evitare che si denunci solo in lui quella che è ormai pratica generalizzata di gran parte delle democrazie in una fase di crisi anche politica, mentre per giunta si sorvola sull’assenza della pur minima possibilità di esprimere il dissenso in quasi tutti i paesi dell’area, Arabia Saudita, Bahrein ed Emirati in testa, alleati serviti e riveriti da Monti e dai suoi ministri…

Avevo scritto in Come si diventa faraone che “Morsi non mi ha mai entusiasmato” e che “non avevo certo puntato sulla sua vittoria, anche se i principali candidati che gli contendevano la presidenza erano poco convincenti”. Le sue concezioni sono indubbiamente retrograde anche se condivise da molti: fortunatamente non da tutti gli egiziani, tanto è vero che in una prima fase le ha dovute dissimulare e ridimensionare. D’altra parte Morsi non può ignorare la forza dell’opposizione: non ha osato impedire alle manifestazioni contro di lui di arrivare al palazzo presidenziale. Era più invalicabile la “zona rossa” di Genova 2001, o intorno a Palazzo Chigi, Montecitorio o Palazzo Madama a Roma nel 2012…

Vorrei chiarire ulteriormente il senso dei miei “distinguo”. In Tunisia, dove ugualmente la prima fase della rivoluzione ha dato spazio a un governo islamico conservatore (ma apertissimo all’Europa come lo era quello di Ben Ali), si susseguono da mesi, e anche in questi giorni, manifestazioni antigovernative, spesso violentemente represse. La Tunisia è vicinissima, ma solo marginalmente e soprattutto in siti specialistici si dà notizia di questi conflitti.

È legittimo il sospetto che l’ostilità particolare nei confronti di Morsi sia legata soprattutto al suo ruolo durante l’aggressione israeliana a Gaza? A me l’invio del suo primo ministro a Gaza non mi convinceva molto, e mi sembrava che fosse legato prevalentemente a esigenze tattiche interne (tra i suoi sostenitori moltissimi mal sopportano la mancata denuncia degli accordi con Israele), e anche a un progetto di consolidamento del rapporto con Hamas, per condizionarla e subordinarla alla propria politica, e quindi agli Stati Uniti.

Ma non c’è dubbio che agli occhi dei fanatici che governano Israele quel gesto è apparso come intollerabile, e visto come un preannuncio di un possibile cambiamento di linea sotto la pressione della stessa base dei Fratelli Musulmani. È questo che spiega l’accanita campagna “contro il Faraone” dei tanti giornalisti “amici di Israele” a cui è affidata l’informazione sul Medio Oriente nei principali quotidiani italiani. I governanti di Israele, insomma, forse hanno intuito meglio della nostra sinistra che la rivoluzione egiziana non è finita, e ne hanno paura…

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