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Immigrazione, l’appello di un vescovo e di un vicequestore

“Più accoglienza e meno criminalizzazione”. Lo chiedono Antonio Riboldi, vescovo emerito di Acerra, e Gianpaolo Trevisi, vicequestore di Verona. Monsignor Riboldi: “Non giudicare dal colore della pelle”. E poi critica la politica insensibile. Il dirigente della polizia Trevisi: “A Lampedusa una disperazione mai vista”.

 

VERONA – “Ero straniero e mi avete accolto” è il titolo di un’interessante incontro pubblico sull’immigrazione che si è svolto a Verona ed ha visto come relatori un prelato e un poliziotto. La tavola rotonda ha avuto come protagonisti monsignor Antonio Riboldi, vescovo emerito di Acerra, e Gianpaolo Trevisi, vicequestore di Verona, dirigente della squadra Mobile ed autore del volume “Fogli di via” (Emi editrice), scritto prendendo ispirazione da storie vere conosciute in sette anni di servizio all’Ufficio immigrazione della questura scaligera. Trevisi ha raccontato vicende umane, rielaborate nel finale con un po’ di fantasia e ironia per consegnare al lettore spunti illuminanti di riflessione ed infondere un pizzico di speranza. Più accoglienza e meno paura dello straniero è il messaggio lanciato nel corso della conferenza.

 

“Ogni uomo, prima che cristiano, musulmano o ateo, è una creatura di Dio: la ricchezza e il consumismo ci hanno allontanato dalla carità” ha detto Riboldi.

Trevisi ha affermato: “Tutti sono esseri umani. In alcune realtà ci si dimentica di questo e così le persone diventano crocette da mettere nelle caselle, sui fogli delle espulsioni o dei permessi di soggiorno: spesso ci si scorda che tutti i cittadini stranieri, compresi gli irregolari, hanno un nome, un cognome, una data di nascita e una storia allucinante”.
 

Le ascolti, queste due voci fuori dal coro, e ti viene voglia di benedirle: vanno con coraggio controcorrente, hanno la capacità ed il merito di far emergere le contraddizioni, le assurdità della nostra cultura ed i paradossi di certe norme. Sono voci che si alzano contro la quotidiana criminalizzazione “dell’uomo nero”, paventato come il pericolo numero uno della nostra sicurezza per colpa anche, sia chiaro, dei mezzi di comunicazione.
 

E così, dal vicequestore Trevisi, si apprende, per esempio, che ci sono ricongiungimenti familiari, tanto attesi, resi però impossibili dalla legge a causa di pochissimi metri quadrati che mancano all’abitazione. Ci viene narrata la dignità, mantenuta durante un’operazione di polizia, di una donna “irregolare” stridente con il degrado della baracca nella quale lei è costretta a passare la notte, a poche centinaia di metri dal centro di Verona, quando ritorna dalla giornata lavorativa trascorsa come badante presso una famiglia-bene di un quartiere “in” della città. Al vicequestore preoccupa molto, più che la signora irregolare, l’indifferenza di quella famiglia che non si cura per nulla che la propria badante è costretta a dormire “con i topi”.

Questa, insomma, è la realtà dimenticata dei dannati della terra, a pochi passi dalle nostre case riscaldate. Un’esperienza di precarietà, che per certi aspetti gli italiani vissero già in altri tempi sulla propria pelle. Monsignor Riboldi ha ricordato: “Andai a trovare gli emigrati in America: la loro storia è la storia che noi abbiamo oggi. Venivano accolti male, arrivavano con le carrette, venivano usati dalla mafia. Nel ’63 andai a visitare anche gli immigrati italiani in Svizzera e in Germania: non dimenticherò mai dove dormivano. Ora si sta ripetendo una storia atroce”. Poi si è interrogato: “Quando vediamo uno che è diverso, perché lo giudichiamo dal colore della pelle? E perché lo sfruttiamo? Chi devo mettere in galera, l’extracomunitario che lavora in nero o chi ci guadagna sopra?”. Per il vescovo la prima cosa è “l’accoglienza”, quella che offrivamo quando eravamo “più poveri e meno superbi”. Per Riboldi “dare un senso alla vita è amare”. “Siate generosi d’amore, a volte bastano piccoli gesti”, ha detto. Poi ha criticato la politica che rimane sorda verso chi ha bisogno d’aiuto: “A me piange il cuore quando dicono: li rimandiamo indietro, a morir di fame. Ma come si fa? E quelli che rimandiamo indietro e muoiono di fame, non stanno sulla nostra coscienza? So che la politica non ragiona in questa maniera, ma io parlo da cristiano, la politica non mi interessa. Da cristiano non mi sentirei di mandare di ritorno una persona a morire di fame. E se il mondo dei poveri si arrabbiasse, cosa succederebbe?”.  



Il vicequestore Trevisi ha dichiarato: “La cosa che mi faceva disperare, quando stavo all’Ufficio immigrazione, era che non riuscivamo a far giocare a pallone i ragazzini di 15 anni, perché se erano nel permesso di soggiorno del papà ed il permesso del padre non era rinnovato, loro non potevano giocare nella squadra di periferia. E ciò mi faceva imbestialire rispetto a chi riceveva un milione di euro al mese e giocava in serie A o B con passaporto e permessi falsi. Io credo che un bambino possa e debba giocare in qualunque angolo del mondo, con o senza documenti”.
 

Trevisi, pochi giorni fa, si è recato in un liceo della provincia di Verona a presentare il suo libro ed è rimasto sconvolto dalle espressioni pronunciate da buona parte degli studenti. Frasi tipo queste: “Perché non mettere le mitraglie a Lampedusa? Perché se un marocchino sbaglia non si puniscono tutti?”.
 

Il vicequestore di Verona ha inoltre disapprovato il fatto che il fenomeno immigrazione venga gestito ancora da un Ufficio della questura, perché ciò indica come l’Italia “sta continuando ad affrontare la questione come un problema di sicurezza”. Ed ha suggerito la creazione di un ministero dell’Immigrazione “perché quando si parla d’immigrazione, si parla anche di lavoro, salute, scuola…”. Trevisi ha raccontato la propria esperienza trascorsa a Lampedusa: “A Lampedusa io sono stato aggregato per un mese; ed è per questo che coloro che mi chiedono perché non spariamo ai barconi quando si avvicinano io li porterei su quelle spiagge, non a prendere il sole o a fare il bagno ma a vedere queste persone che arrivano. Perché su quei barconi con cento persone, oltre ai due-tre contrabbandieri di queste vite, c’è in realtà una disperazione come nessuno di noi ha mai visto”. Ha poi confidato che l’estate scorsa, quando è partito per un viaggio in Portogallo, ricordandosi di quella esperienza si è fatto “quasi un po’ schifo”, perché nel suo bagaglio aveva magliette, costumi, computer, caricabatteria del cellulare, i-Pod, “mentre quelli che arrivano a Lampedusa – ha affermato – se sono fortunati hanno in mano una busta della spesa con le foto delle persone che loro cercheranno di aiutare una volta arrivati in Italia e con un paio di scarpe che noi avremmo gettato già otto mesi prima e che loro tengono come le scarpe buone da usare in città”.
 

Anche di queste informazioni, allora, bisogna tener conto quando si formulano giudizi sul fenomeno immigrazione. Distinguendo poi, certo, tra povera gente onesta e delinquenti.
 

Oltre alla legge, c’è la vita delle persone. Di ogni persona. Ce lo hanno ricordato, in un teatro affollato di una città di provincia, un uomo di Chiesa e un uomo della legge. Entrambi meravigliandoci, è il caso di dire, di questi tempi. E a me, sinceramente, conforta non poco sapere che in Italia, nella mia città, esiste di sicuro almeno un funzionario di polizia che cerca di far applicare la giustizia prima ancora della legge. E’ anche in virtù di persone come Gianpaolo Trevisi che, ogni tanto, mi sento fiero di essere italiano. Grazie, vicequestore.

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