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Il velo steso su certe pretese religiose

Televisioni e giornali, nei giorni scorsi, hanno dato ampio spazio alla vicenda di Sara Mahmoud. Una giovane che intende far causa a un’azienda che, per assumerla, le ha chiesto che non utilizzasse il velo. I toni usati sono stati quasi sempre di empatia nei confronti della giovane. Il rispetto delle concezioni religiose sta portando a inibire ogni critica alla religione, anche quando costituisce la base per rivendicazioni discutibili?

La giovane di religione islamica, cittadina italiana nata a Milano e figlia di genitori di origine egiziana arrivati più di 20 anni fa, frequenta la Statale e indossa l’hijab. Iscritta a varie mailing list di offerte di lavoro, aveva risposto all’annuncio di una società per distribuire volantini. Ma i responsabili dell’azienda che gestisce eventi per la Fiera l’hanno scartata perché non era disposta a togliersi il velo durante il lavoro. Mahmoud, che lamenta di non essere stata assunta in altre occasioni per lo stesso motivo, ha deciso quindi di fare causa per discriminazione portando come prova lo scambio di email avuto con la società.

Ecco lo scambio di messaggi, così come riportato dalla giovane. “Mi piacerebbe farti lavorare perché sei molto carina”, scrive la responsabile, “ma sei disponibile a toglierti il chador?”. La ragazza ribatte: “porto il velo per motivi religiosi e non sono disposta a toglierlo. Eventualmente potrei abbinarlo alla divisa”. Dalla società fanno sapere che “purtroppo i clienti non saranno mai così flessibili”, facendo intendere che non la prenderanno. Lei insiste (”Dovendo fare semplicemente volantinaggio, non riesco a capire a cosa devono essere flessibili i clienti”), ma non riceve risposta.

Un caso che ricorda quello francese dell’asilo privato Baby Loup, dove la Corte di Cassazione ha dichiarato nullo il licenziamento di Fatima Afif. La donna, anni dopo la sua assunzione e nonostante le regole interne improntate sulla laicità impedissero l’ostentazione di simboli religiosi proprio per tutelare i bambini, aveva deciso di mettere il velo sebbene prima non lo facesse.

Anche la Corte europea dei diritti dell’uomo si è pronunciata recentemente su quattro casi inglesi di ostentazione di convinzioni e simboli religiosi in ambienti di lavoro. La Cedu ha dato torto a tre su quattro, ritenendo però che nel caso di Nadia Eweida ci fosse una violazione. Si trattava di un’addetta al check-in della British Airway che non si era adeguata alle regole interne, valide per tutti, che proibivano gioielli, spille o catenine, quindi anche simboli religiosi.

Proprio la sentenza della Corte di Strasburgo potrebbe aver rappresentato il detonatore dell’azione legale di Mahmoud, come fa intuire proprio il legale della giovane. Esiste tuttavia una differenza sostanziale tra un licenziamento e una mancata assunzione. Non si capisce dove risieda la colpa del datore di lavoro che non vuole assumere dipendenti che a priori non intendono rispettare il codice comportamentale dell’azienda. La giovane si è semplicemente vista rifiutare un lavoro per il quale non aveva i requisiti.

Ancora una volta, la libertà di religione diventa l’escamatoge con cui chiedere privilegi, ai quali non possono accedere i comuni mortali, i corazzieri (che devono essere alti almeno un metro e novanta) e persino gli stessi parlamentari, costretti a indossare giacca a e cravatta. Ma Mahmoud va oltre, perché vuole la libertà di abbigliamento anche nell’ambito privato. Il problema è che chi fa notare come una pretesa di natura religiosa non può avere la precedenza viene spesso tacciato di “islamofobia” (o, a scelta, di “cristianofobia”, perché si assiste a convergenze parallele tra le pretese degli integralisti islamici o di quelli cristiani in nome di una comune difesa dell’invadenza della religione negli ambiti sociali e politici). Il dibattito sulla questione del velo si fa più complicato e aspro perché si lega anche a questioni di schieramento e ideologia politica.

Non sappiamo se l’Ucoii sarebbe disposta ad assumere personale che indossa magliette con la scritta “Allah non esiste”. Ma si sa: i sostenitori della libertà di religione sostengono solo la propria libertà e la propria religione. Con buona pace di chi pensa che i credenti rendano più coesa la società.

Questo articolo è stato pubblicato qui

Commenti all'articolo

  • Di (---.---.---.248) 16 aprile 2013 13:07

    Io ritengo la religione un leggero disturbo mentale.
    Eppure do ragione alla ragazza: nessuno può importi come vestirti, nè lo Stato nè un datore di lavoro.
    Può esserci un’imposizione motivata (per es. i vestiti bianchi delle infermiere) o culturale, come coprirsi i genitali, ma niente altro.
    Ricordo che in Francia hanno approfittato della stupidissima legge che proibiva il foulard (no, non lo chiamo velo islamico, per me è un foulard) nelle scuole per imporre, dopo un paio d’anni, una lunghezza minima alle gonne delle ragazze.
    A quel punto c’era già il precedente del foulard e nessuno ha potuto dire niente.

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