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Italia, il vecchio che avanza

Guardateli bene in faccia: sono forse questi signori in grado di risolvere i mille problemi della società italiana? Li reputate all'altezza delle sfide della modernità? E capaci di ascoltare le esigenze dei giovani, di programmare il futuro, di arrestare il declino in atto? Sì... la penso esattamente come la maggior parte di voi.

Eppure, proprio ora che occorrerebbe una svolta lungimirante, una visione coraggiosa, quel vento nuovo da molti auspicato, le nostre sorti sono impietosamente legate agli arzilli vecchietti della politica italiana. Sul premier Berlusconi ormai c'è poco da aggiungere, oltre a ciò che è finalmente diventato palese a tutti: è il simbolo vivente della decadenza nazionale, con gli annessi e connessi che da anni le cronache quotidiane ci riportano. Accanto a lui, quasi per un perverso meccanismo simbiotico, resiste il malconcio padano Bossi che tra un rutto e un gestaccio appare gravemente sconnesso dalla realtà.

Infine c'è l'inattesa "new entry", quella più chic se vogliamo, incarnata dal capriccioso libertario di lungo corso Pannella al quale pure dobbiamo tante conquiste civili ma che adesso, forse a causa dell'abusato digiuno, esalta il proprio carattere discontinuo e bizzarro al limite dello psicopatologico.

Cos'hanno in comune? A parte il fatto che potrebbero, salvo incidenti dell'ultima ora, concludere gli scampoli di seconda repubblica dallo stesso lato della barricata, tutti e tre non riescono più a interpretare il sentimento popolare, almeno quello più diffuso. Oppure, chissà, semplicemente non vogliono. Consapevoli di essere alle ultime battute della propria vicenda pubblica e di un sistema al collasso, magari puntano egoisticamente a soddisfare le priorità personali a scapito dell'interesse generale, siano esse le ultime leggi ad personam per scongiurare la galera o lo scettro del comando nella magica cerchia di quell'accademia un po' curiosa chiamata Lega o un bell'assegnone (partitocratico?) che salvi le antenne di Radio Radicale dall'emarginazione del regime.

Detta molto francamente, visti i tempi e rinunciando agli inopportuni ed ipocriti distinguo, a chi ha un pizzico di sale nella zucca di quegli interessi particolari non dovrebbe fregare un accidenti. Anche dentro lo stesso Palazzo. Perchè fuori il mondo scorre in modo assai differente, con altri colori e con altri sapori. C'è gente che soffre e s'indigna per cose di gran lunga più serie, che se gli chiedi cosa pensa di certi pruriti della casta ti risponde che, di norma, un ladro e corruttore sta al fresco e non a Palazzo Chigi, un cerebroleso (che non è una parolaccia ma la definizione scientifica per indicare chi ha subito una grave menomazione a livello neurologico) si fa curare in nosocomio e non fa il ministro per le riforme, mentre uno che sta sempre in sciopero della fame dimagrisce e non ingrassa!

La questione giovanile, che evidentemente non può essere affrontata da certi anziani signori fermi alla condizione e alle logiche degli anni '80 (ad andar bene), dovrebbe occupare in modo quasi esclusivo l'odierna agenda politica e sociale. E chi si attarda in altre discussioni, ostinandosi a non varare misure per la crescita che antepongano i bisogni dei figli ai privilegi dei padri, optando così una volta per tutte per la costruzione del futuro, meriterebbe un'accusa per crimini contro l'umanità.

I dati apocalittici sugli attuali disequilibri generazionali del nostro Paese, purtroppo, continuano ad essere diffusi con spietata puntualità. Ad esempio, tralasciando le solite cifre riguardanti il Sud che già fanno rabbrividire, nei giorni scorsi è uscito un rapporto del Comune di Milano sui "nuovi poveri" dove spiccano i neolaureati assistiti dalle associazioni di volontariato, tutti con un'età media di 30 anni, abituati a chiedere ospitalità per procurarsi cibo e vestiti.

Il loro numero è raddoppiato rispetto al 2010 e va a sommarsi alle persone che hanno perso il lavoro o con un reddito così basso da non riuscire ad arrivare alla fatidica "fine del mese". Perfino i "senza tetto" sono cresciuti nella capitale finanziaria d'Italia (+10% rispetto all'anno scorso), come si è visto pure nella scorsa puntata di Ultima Parola con il caso della famiglia costretta a vivere in automobile.

L'indigenza economica, assieme all'indifferenza delle istituzioni, fomenta in chi la vive un grande sentimento di rabbia verso la società, che spesso può degenerare in vere e proprie ribellioni violente. E in quei casi, anche volendosi sforzare, diviene davvero difficile non cedere a qualche forma di giustificazione. Specie se a ribellarsi sono appunto i più esclusi dal sistema, vale a dire le nuove generazioni.

Il sito di analisi economica Lavoce.info, attingendo dagli archivi della Banca d'Italia e di Camera e Senato, ha recentemente pubblicato uno studio su debito pubblico e condizione economico-sociale degli italiani. Giusto per non farci mancare un altro punto di vista autorevole sul dramma dei nostri giovani, che emerge di nuovo in tutta la sua gravità. La premessa rileva che l'enorme deficit accumulato dallo Stato a cavallo fra gli anni '60 e '90, che come sappiamo ha continuato a crescere anche nel periodo successivo, non è stato utilizzato per lo sviluppo ma per far fronte ai consolidati privilegi di determinate categorie sociali, soprattutto di pensionati e dipendenti pubblici e in genere dei soggetti nati nel decennio 1940-1950, che hanno trascorso la gran parte della propria vita lavorativa nel frangente di massima espansione del debito stesso trasferendone i costi alla generazione successiva, quella dei loro figli nati tra il 1965 e il 1975.

Confrontando i dati si evince chiaramente, avendo come riferimento lo stesso parametro anagrafico, come il tasso di occupazione della generazione dei nonni (nati negli anni '20 e '30) fosse più elevato di quello dei padri oggi cinquantenni e sessantenni. E non perchè questi ultimi abbiano incontrato maggiori difficoltà a trovare lavoro, bensì perchè sono stati i protagonisti negativi del fenomeno delle "baby pensioni". Gli attuali trentenni e quarantenni, ammesso che siano così fortunati da possedere un lavoro, non hanno ancora raggiunto la fascia di età dei loro padri ma a loro non sarà certamente concesso di ottenere la pensione prima dei 65 o 70 anni. Anzi, l'avranno più tardi e d'importo nettamente inferiore rispetto ai padri.

In sostanza, i figli non hanno concorso alla formazione del debito pubblico, accumulato quasi totalmente nel corso della vita lavorativa dei padri, ma saranno principalmente loro a doverlo pagare attraverso l'imposizione fiscale degli anni venturi. La crisi finanziaria in atto, peraltro, sta dimostrando che l'Italia non potrà continuare a indebitarsi alle stesse condizioni del passato e che chi ha 30 o 40 anni non potrà trasferire i costi collettivi del debito ereditato ai propri figli e nipoti.

Anche esaminando le ultime misure economiche che hanno drasticamente tagliato i servizi a livello locale, con particolare riferimento a quelli socio-assistenziali e sanitari, appare evidente che i più penalizzati sono e saranno i soggetti appartenenti alla generazione dei figli di oggi. Senza dimenticare la sproporzione della spesa pensionistica prevalentemente destinata, in virtù delle continue riforme degli ultimi vent'anni, a coprire i diritti acquisiti di padri e nonni penalizzando, di nuovo, le prospettive di figli e nipoti. Insomma, oggi i giovani stanno peggio dei loro padri e quasi certamente non potranno garantire un futuro migliore ai propri figli.

E' poco per protestare? Per scendere in piazza a urlare la propria indignazione? A fronte di tale fosco scenario, si assiste alla strenua resistenza della classe dirigente a tutela dei propri vantaggi. La politica, in particolare, evita sistematicamente di responsabilizzarsi rispetto all'urgenza di concorrere al risanamento dei conti pubblici. Magari rinunciando a qualcosa che ai più appare come superfluo e ingiusto. E invece, anche all'interno delle istituzioni e dei partiti, a decidere per tutti e ad essere sovrarappresentati sono proprio i padri e perfino i nonni. I parlamentari appartenenti alla generazione dei figli, infatti, sono appena il 16%. E' pertanto quanto mai necessario un ricambio generazionale nei posti che contano, anche per disinnescare la degenerazione delle manifestazioni di dissenso.

In pochi lo stanno comprendendo. L'assenza di interlocutori credibili per il mondo giovanile, di riferimenti certi e di guide consapevoli dei loro bisogni, è un'altra questione di rilievo nel più vasto problema del deficit di rappresentanza. Fra quanti dimostrano una spiccata capacità di ascolto, possiamo annoverare due personalità di primo piano del nostro panorama pubblico: Giorgio Napolitano e Romano Prodi. In pratica, l'attuale Presidente della Repubblica e chi viene accreditato in maniera sempre maggiore come colui che ne erediterà la carica. Tanto "freschi" non sono neanche loro, a riprova della consuetudine gerontocratica tutta italiana.

Del Capo dello Stato conosciamo bene l'attitudine a interessarsi delle questioni legate alle nuove generazioni e al futuro del Paese, mentre l'ex premier, da quando ha lasciato la politica attiva, ha avuto modo di essere costantemente a contatto coi giovani grazie all'insegnamento universitario. Esperienza raccolta in un libro-intervista pubblicato da Aliberti, Futuro Cercasi, nel quale si occupa di disagio e di cattiva politica. Temi tra l'altro affrontati nelle sue seguitissime apparizioni televisive nel programma di la7 "Il mondo che verrà".

Si tratta di un manifesto "futurista" che non esalta soltanto l'affermazione anagrafica ma soprattutto il bisogno di autonomia, in senso sociale ed economico, di una generazione di fatto emarginata dai processi decisionali. Il nodo strategico, per Prodi, consiste appunto in questo: i giovani devono crearsi un profilo forte, ma vanno sostenuti attraverso investimenti di sistema volti a rafforzare il settore della formazione. Dunque quello del Professore è un atto d'accusa severo, probabilmente anche in chiave personale, a quanti hanno a lungo favorito la logica mercatista - egoista e senza futuro - del "chi è fuori è fuori e chi è dentro è dentro".

Se questi riconoscimenti illustri possono contribuire a indirizzare il malcontento giovanile verso un terreno più sobrio e responsabile, che isoli le sacche di violenza, è presto per dirlo. Però c'è già fra i giovani chi ha scelto di lottare in modo originale contro le diseguaglianze, ma non per questo meno provocatorio, affidando la propria indignazione alla creatività della scrittura. Come Domenico Cirasole, classe 1973, e Raffaella Giancarla Landriscina, classe 1970, con l'e-book Il precario Ugo sfida la privilegiata casta, nel quale raccontano le lotte dei giovani precari e degli indignati italiani accomunandole a quelle dei coetanei arabi ed europei.

Il messaggio del libro è il seguente: nell'era della globalizzazione, per lungo tempo caratterizzata da una forma selvaggia di liberismo, l'egoismo della finanza, della politica e dell'impresa (di quel mondo, cioè, che detiene la quasi totalità della ricchezza del pianeta) può essere spezzato solo se uniti. I giovani nelle piazze mondiali vogliono ricordare a tutti questa primaria necessità di solidarietà e di coesione democratica, contro le varie caste e cricche che accumulano benefici e sottraggono dignità ai popoli. Per evitare il ripetersi di gesti di protesta estrema, occorre capire il disagio ascoltandolo, condividendolo e risolvendolo.

Come i giovani autori Domenico e Raffaella, anche Caterina De Manuele, 28 anni e una laurea al Politecnico di Milano con 109 su 110, ha affidato il suo sdegno annotandolo su carta. Lei ha avuto il coraggio di dire NO alla rivista a cui aveva inoltrato il proprio curriculum, che voleva sfruttarla come stagista senza rimborsarle neanche un centesimo, e per questo si è addirittura vista apostrofare come "mignotta" in un acceso scambio di mail con l'editore. Circostanza che l'ha spinta a inviare una lettera al Presidente Napolitano, per rivolgergli un accorato appello e invitarlo a non lasciare soli i giovani italiani ai quali è già stato rubato il futuro.

Nel frattempo, intanto che altre storie analoghe di ingiustizia e di sofferenza si consumano a danno della parte della società che dovrebbe rappresentare l'avvenire di tutti, il teatrino della politica sembra mandare in scena l'ennesimo spettacolo rivoltante. E manco a farlo apposta proprio su una questione che potrebbe rivelarsi di vitale importanza per il futuro dei giovani e che è affidata ancora una volta a due vecchietti come Berlusconi e Bossi. I due si azzuffano intorno al tema dell'innalzamento dell'età pensionabile, provvedimento che consentirebbe in prospettiva di riequilibrare, finalmente, la spesa sociale a vantaggio delle nuove generazioni salvando dalla bancarotta il sistema previdenziale e consentendo di incentrare lo sviluppo del Paese sulla creazione di nuove opportunità occupazionali.

Se il "vivace" dibattito in corso servirà almeno a far cadere questo governo (ma tanto chi ci crede?), non più presentabile e all'altezza delle sfide sul tappeto, ben venga la zuffa. Magari assieme a una classe dirigente rinnovata, pure anagraficamente, e più al passo coi tempi.

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