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Il tabù del salario minimo ingabbiato

Perché un salario minimo in Italia non potrà essere introdotto senza prima tener conto delle differenze territoriali e aziendali

Su Repubblica, un commento di Tito Boeri e Roberto Perotti sul salario minimo, evidenzia tutte le contraddizioni e le autentiche aporie che caratterizzano questo tema, divenuto ormai da anni parte integrante della paccottiglia elettorale e propagandistica, senza che si progredisca di un centimetro verso la sua realizzazione in un contesto di realtà.

Una premessa: non intendo, qui, commentare in dettaglio il Nobel per l’economia di quest’anno, assegnato a Joshua Angrist, David Card e Guido Imbens per il loro contributo nel campo degli esperimenti naturali e delle doppie differenze. Che, tra le altre cose, ha portato Card e il defunto Alan Kruger (che sarebbe stato il quarto vincitore del premio) a studiare gli effetti sull’occupazione di un aumento del salario minimo.

Il Nobel e il salario minimo

Su questo, trovate un eccellente post dello stesso Boeri e di Paolo Pinotti su lavoce.info, per comprendere che si parla di metodi di ricerca sociale, e non necessariamente di salario minimo. Ciò premesso, non sono così naïf da non cogliere che il comitato che assegna il Nobel opera di intersecare le metodologie di ricerca innovative (“breakthrough“) con le criticità sociali dei nostri tempi, quindi tutto si tiene.

Fine della premessa. Che scrivono, quindi Boeri e Perotti? Il pezzo inizia proprio dall’esperimento di Card e Kruger del 1994 sull’aumento del salario minimo in New Jersey, che portò all’aumento di occupazione:

La possibile spiegazione è che quando i datori di lavoro hanno un forte potere contrattuale nei confronti dei lavoratori, impongono loro salari molto bassi che rendono poco conveniente lavorare. Un salario un po’ più alto in questi casi aumenta, anziché ridurre, l’occupazione.

Mi concentrerei sul concetto di “salario un po’ più alto”. Che ovviamente necessita di quantificazione. Boeri e Perotti ricordano che il salario minimo esiste in tutta Europa, “ad eccezione dell’Austria e dei paesi nordici, fortemente sindacalizzati”. Serve a contrastare il fenomeno dei working poor, nei casi in cui tale condizione derivi da eccesso di forza contrattuale del datore di lavoro. Ed ecco la quantificazione:

Se fissato ad un livello ragionevole (tra il 40 e il 50% delle retribuzioni mediane, come avviene in molti altri Paesi europei) potrebbe aumentare sia i salari che l’occupazione.

In soldini e soldoni

Servirebbe anche fornire il dato in soldini o soldoni, però. Il mondo politico scoprirebbe che andare a propagandare un salario minimo a 5 euro orari o giù di lì sarebbe il modo più efficace per suicidarsi sul piano elettorale e del consenso.

La disamina di Boeri e Perotti prosegue:

Un rischio, dice qualcuno, è che i salari si allineino ai salari minimi. Una obiezione insensata: i salari minimi sono minimi, non massimi! Se sindacati e datori di lavoro hanno contrattato un salario di 11 euro, perché dovrebbero ridurlo se viene introdotto un salario minimo di 7 euro? Anzi, c’è evidenza empirica che l’introduzione di un salario minimo spinge verso l’alto anche certi salari al di sopra del minimo, come del resto ci si aspetterebbe.

Credo che questa evidenza empirica in Italia poggi soprattutto sul concetto di scale parametrali nel senso che, se aumento la retribuzione più bassa di un contratto collettivo, quell’aumento si trasmette a tutta la struttura retributiva. Proseguiamo:

Altro argomento ricorrente: il salario minimo svilisce i contratti collettivi. Ma sono due cose completamente distinte. Il salario minimo protegge dalla emarginazione e dallo sfruttamento i molti lavoratori che cadono fra le maglie vieppiù larghe della contrattazione collettiva.

Una misura per tutti?

Il punto è altro: occorre preliminarmente capire a cosa si riferisce il salario minimo. Alle componenti non monetarie della remunerazione, come il welfare aziendale e tutto quello che deriva dai contratti integrativi aziendali? Se sì, a maggior ragione serve fissare un salario minimo di natura strettamente monetaria. Che tuttavia, per quanto detto sopra, sarebbe un ceffone in faccia alla propaganda partitica.

Non vado oltre, con questi esempi: quello che voglio dire è che il principio è sacrosanto e condivisibile, ma il modo in cui eventualmente si deciderà di declinarlo ha un elevato rischio di causare sconquassi. Sempre in tema di “quanto”, ecco che ci avviciniamo al nucleo della questione:

In molti propongono poi di utilizzare i minimi settoriali fissati dalla contrattazione come tanti salari minimi da applicare industria per industria. Ma questo potrebbe avere effetti deleteri sull’occupazione. I minimi contrattuali spesso sono il frutto della negoziazione con le aziende più grandi nelle regioni più ricche, che possono pagare salari più alti. Se fissati a un livello troppo alto, i salari minimi distruggono posti di lavoro nelle aziende medio-piccole.

Appunto. È ormai palese che Boeri e Perotti sono molto attenti a evitare la trappola del “one size fits all“, una sola grandezza si adatta a tutto e tutti. Perché così non è, soprattutto in un paese come l’Italia. Il punto è: come supportare i working poor senza causare disastri ed esplosione di costo del lavoro altrove? Un delicato equilibrio, dunque.

Altri gatti per prendere il topo

Per raggiungere il quale, ci sono anche forme di sostegno “esterno” al mercato del lavoro, come l’Earned Income Tax Credit americano o l’Universal Credit britannico. Il salario minimo non è il solo gatto in grado di prendere il topo. Anzi, temo che questo gatto rischi di fare danni, mentre cerca di catturare il roditore.

Ma qui arriviamo, giusto in coda al commento, al punto della questione. Conoscere per deliberare, diceva Einaudi. A chi dare l’incarico di metterci in condizione di conoscere? Ai “tecnici”, come accade in altri paesi, prima della decisione politica:

Invece di sparare numeri a caso senza precisare neanche di cosa si parla (per esempio, paga base o anche retribuzione differita?) ci si potrebbe affidare, come nel Regno Unito e in Germania, a una commissione che definisca esattamente gli inevitabili dettagli tecnici, lasciando poi al Parlamento e al governo il compito di decidere.

Il benchmark a Mezzogiorno

Ecco, evitare di sparare numeri a caso vuol dire che la politica deve ammutolire. La vedo dura. Bene la commissione tecnica, ovviamente: spetta poi agli eletti assumersi le proprie responsabilità, e decidere. Ma Boeri e Perotti, nella loro evidente consapevolezza della criticità della situazione italiana, mettono il dito e tutta la mano nella piaga:

Poiché la povertà fra chi lavora, il lavoro nero e la disoccupazione sono problemi soprattutto nel Mezzogiorno, bisognerebbe fissare il livello del salario minimo con riferimento alla realtà meridionale, lasciando poi alle Regioni che volessero aumentarlo la possibilità di chiedere alla Commissione approfondimenti sul loro caso specifico.

Bingo. Il territorio è ferocemente disomogeneo, quindi occorre che l’area più svantaggiata, o meglio quella con la minore produttività, divenga il benchmark o meglio il minimo comune denominatore. Da questo “minimo dei minimi”, ogni territorio si faccia i conti in tasca e in casa, e proponga i propri numeri.

La gabbia della realtà

Ma, e qui mi ripeto, esprimere il concetto a questo modo (l’unico realisticamente possibile, peraltro) non fa che riproporre il tema delle “gabbie salariali” e del decentramento aziendale e territoriale della contrattazione, che sono tabù assoluto in questo paese.

Riepiloghiamo: si al salario minimo (concordo), ma non ne esiste uno solo di equilibrio nazionale. Quindi occorre un minimo comune denominatore che è il fanalino di coda, cioè il Mezzogiorno, e da qui partire per creare gabbie salariali “minime”. La logica della proposta è questa, non altra. Quindi, non ha alcuna speranza di essere accolta ed elaborata dalla politica.

Dopo di che, giù per li rami, conseguono alcune evidenze palmari che sono tuttavia gli ultimi tabù prodotti in ordine rigorosamente cronologico da questo paese paralizzato:

Nel fare questo si dovrebbe anche rivedere il reddito di cittadinanza, che nel Sud è stato dissennatamente fissato ad un livello pari quasi al reddito mediano di coloro che lavorano. Ci auguriamo che questa modifica sia prevista nelle proposte di riforma allo studio del governo.

Come avrete (spero) compreso, questo è un tema che, comunque lo si affronti, anche dalla prospettiva progressista di Perotti e Boeri, porta a una sola conclusione: il paese è troppo disomogeneo per poter mettere mano a un concetto di salario minimo che sia qualcosa di differente da quella vergogna che si vuole combattere. Ogni altra “soluzione” non è tale, semplicemente. Siamo ingabbiati dalla realtà.

Ecco perché di salario minimo si continua a parlare da anni e si continuerà a farlo, nella abituale commedia all’italiana degli equivoci, facendosi bastare proclami del tipo “Visto? Il salario minimo funziona, lo dicono anche i Nobel!”

Questo articolo è stato pubblicato qui

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