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Il surplus commerciale cinese alla tempia della Ue

Missione inutile per Ursula Von der Leyen e Charles Michel in Cina. La Ue ha una voragine commerciale nei rapporti bilaterali ma è pressoché priva di leve per riequilibrarla nel breve termine

Non c’erano grandi aspettative, riguardo alla missione in Cina della presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen, e del presidente del Consiglio europeo, Charles Michel. Obiettivo, il riequilibrio del deficit commerciale bilaterale al tempo del de-risking e della confrontation tra blocchi geopolitici, guidata dagli americani.

ESPLODE IL DEFICIT MERCI

Lo scorso anno, il deficit commerciale (lato merci) della Ue verso la Cina si è ampliato considerevolmente, toccando i quasi 400 miliardi di euro. Le aziende europee lamentano che alla base di ciò vi è l’abituale presenza di barriere non tariffarie, cioè gli ostacoli normativi posti agli esportatori in Cina, ma anche la grande spinta che Pechino sta esercitando in termini di sussidi ai propri settori considerati critici per lo sviluppo economico.

Nell’ultimo anno i prestiti bancari a settori manifatturieri rilevanti, quali nuove fonti energetiche, aerospaziale, grandi aerei, treni ad alta velocità, agribusiness, sono aumentati di oltre il 30%, mentre quelli all’immobiliare sono fermi, in attesa di capire che intervento verrà realizzato dal governo centrale, in termini di assunzione di debito locale e nuovi crediti a sviluppatori in dissesto più o meno conclamato.

I sussidi e le agevolazioni creditizie, gestite dal sistema bancario pubblico cinese, stanno spostandosi dal settore immobiliare, che attraversa il momento dello scoppio di una bolla speculativa durata lustri, a quello manifatturiero. Il problema è che questi sussidi si risolvono nel tradizionale aumento di capacità produttiva, che è costretta a trovare sfogo nelle esportazioni, con conseguenti tensioni politiche e pressioni protezionistiche.

E poiché l’Europa rappresenta un mercato ancora sostanzialmente aperto, ecco che il deficit bilaterale lievita. Bruxelles ha avviato una indagine anti-dumping sull’importazione di veicoli elettrici che potrebbe condurre ad un aumento delle tariffe, oggi al 10% contro il 25% statunitense. Nel frattempo, l’Europa è in forte ritardo sulla creazione di una catena del valore sulle batterie di veicoli elettrici, al punto che la Commissione è stata costretta a proporre un rinvio triennale alla misura sulle regole di origine contenuta nel trattato commerciale di uscita del Regno Unito dalla Ue. In pratica, dal prossimo primo gennaio sarebbero dovuti scattare dazi del 10% sull’interscambio di veicoli elettrici tra Ue e Regno Unito in caso la percentuale di valore del veicolo realizzato nelle due aree fosse inferiore al 45%.

Dato il rilevante peso delle batterie nel valore dei veicoli elettrici e il forte ritardo nella creazione di una catena di fornitura europea, la tagliola del dazio sarebbe scattata, appesantendo il prezzo delle vetture di una cifra stimata in oltre 3.000 euro (o sterline). Già questa deroga spiega l’affanno europeo in una tecnologia dominata verticalmente dalla Cina, dall’estrazione di minerali critici alla creazione di batterie. Per accelerare la chiusura del gap Bruxelles ha annunciato sussidi per tre miliardi di euro per lo sviluppo di batterie.

Di fronte alle doglianze europee, la Cina ha buon gioco a ribattere che il deficit bilaterale si gonfia per effetto dell’adesione europea alle limitazioni di export strategico imposte dagli Stati Uniti. Ad esempio quelle relative agli strumenti di stampa dei chips più avanzati, decise in modo “spintaneo” dagli olandesi di ASML. Ma c’è altro: secondo Pechino, un terzo della produzione realizzata in Cina da aziende europee viene riesportata nel vecchio continente. Ecco perché basarsi sulla contabilità piuttosto grezza del saldo commerciale bilaterale è da sempre insidioso.

AZIENDE TEDESCHE IN OSTAGGIO

La Cina di fatto ha in “ostaggio” molte aziende tedesche, soprattutto nel settore automotive. Sta puntando a spingerle progressivamente ai margini del mercato EV domestico ma ha modo di esporle alle ritorsioni commerciali europee. Ecco perché la Germania non era entusiasta all’idea di una indagine anti-dumping della Commissione, caldeggiata invece dai francesi, che puntano a proteggere il mercato domestico europeo per i propri marchi. La Germania ha poi investito e continua ad investire in Cina anche per sfuggire al caro energia che sta minando le sue produzioni: l’esempio è l’impianto da 10 miliardi di euro che BASF sta realizzando nella città cinese meridionale di Zhanjiang.

L’attrazione cinese per le aziende tedesche resta fortissima: il 40% delle auto vendute da Volkswagen è destinato alla Cina; la Cina genera il 15% dei ricavi di BASF e il 13% di quelli di Siemens. Secondo un sondaggio dell’istituto di ricerca Ifo, il 46% delle aziende tedesche si affidano a fattori di produzione intermedi di provenienza cinese. Ma se la quota di mercato dei costruttori europei nell’auto si riduce, in conseguenza di minore competitività rispetto ai produttori cinesi sia in quel mercato che in quello europeo, ecco che lo sbilancio bilaterale si allarga, anche senza bisogno di ipotizzare ritorsioni.

Per l’Europa, la sostituzione di input cinesi resta molto problematica, nel breve-medio termine, soprattutto nel momento in cui è in atto il formidabile e autolesionistico volano della riconversione ambientale. Se a questo aggiungiamo la verosimile perdita di competitività di aziende tedesche insediate in Cina, inclusa la componente destinata alla riesportazione, ecco che il saldo bilaterale diventa un po’ più leggibile ma non per questo meno critico. Con buona pace dei confusi no-euro che teorizzavano, sulla Brexit, che il coltello dalla parte del manico sarebbe stato impugnato da chi è in deficit bilaterale, cioè da Dover e non certo da Calais. Se fosse tutto così semplice, nella vita.

Ma come è finito poi, il vertice? Beh, Xi Jinping si è ovviamente mostrato conciliante, ha detto che il suo paese vuole essere un partner commerciale chiave per la Ue, per uno sviluppo di alta qualità, e invita a liberarsi dalle “interferenze”, presumibilmente quelle americane. E comunque, nei primi undici mesi del 2023 il surplus cinese è in calo del 17%, osservano da Pechino. In che altro modo vi attendevate potesse finire?

P.S. Per tutti i fedeli della chiesa binaria, quella per cui le cose sono bianche o nere: vi segnalo che no, la Cina non sta bene, in termini di condizione economica. E continuerà a non stare bene fino a quando non avrà conferito in discarica le imponenti macerie del suo crollo immobiliare e aver deciso cosa vuole essere, tra dirigismo da dissesto e mercato più o meno degno di questo termine. Anche in un’era come questa, in cui la geopolitica la fa da padrona. Se poi corrisponde al vero la stima, fatta al Financial Times da un alto funzionario Ue, di una perdita di 30.000 euro per ogni veicolo elettrico prodotto dai cinesi, in termini di agevolazioni creditizie, si comprende che il mondo potrebbe trovarsi in un devastante gioco a somma negativa.

Photo by Consilium Eu

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