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Il senso dello Stato (di Mussolini e altri)

Il primo fascismo aveva un così forte senso dello Stato che l’ha distrutto. Un po' come quegli amori così travolgenti che portano ad ammazzare l'amante.

Begli amori.

Avere il senso dello Stato non è di per sé una categoria positiva dello ‘spirito’ di servizio che il politico o il funzionario hanno (o dovrebbero avere) nei confronti delle istituzioni di una Nazione. Può essere anche il senso di ciò che si vuole abbattere, per sostituirlo, sia chiaro, con qualcosa dotato di un ‘senso’ ancora più forte, netto, preciso. Questione di interpretazione, insomma.

Avere il senso dello Stato significa avere ben presente che esistono valori, interessi, idee che non sono quelli di una parte (partito o altro che sia), bensì quelli dell’insieme della società civile.

Quello che Benito Mussolini fece, partendo dalle lande del socialismo interventista per approdare alle leggi fascistissime, fu di imporre uno Stato a binario unico, a pensiero unico, a ideologia unica, a finalità uniche: le sue.

Ed è quello che il suo più tardo epigono, Adolf Hitler, ripeté di lì a poco nella sua filippica contro i partiti del 1932 che oggi è stata rispolverata per le assonanze con certe intemperanze grillesche. E quello che poi fecero anche Francisco Franco e Antonio Salazàr e poi i colonnelli greci e tutti i vari golpisti sudamericani, con Augusto Pinochet e Jorge Vidèla in testa.

Avevano un così forte senso dello Stato che pensavano di incarnarlo loro. Solo loro. Per cui, trovandosi fra i piedi le lagnose e petulanti inconcludenze della democrazia parlamentare, rappresentativa - non sempre e non comunque - di tutti i cittadini del rispettivo paese, pensarono bene di risolvere la malattia uccidendo il malato.

Così le democrazie caddero una dopo l’altra in quel lungo secolo “breve” che nella sua esistenza ha dimostrato alla storia quanto può essere fragile quella idealizzata parola che si chiama ‘libertà’. Libertà di pensiero, di parola, di organizzazione, di rappresentanza; magari anche di stampa e di informazione, addirittura.

Poi, si sa, quando si “eccede” si rischia di emanare leggi razziste, di sterminare interi popoli, di scatenare conflitti che nessuno può più fermare fino alla distruzione dell’ultimo mattone.

Avendo un forte “senso dello Stato”, nell’accezione che Benito Mussolini novant’anni fa ha dato a questo termine e che la gentile onorevole Lombardi ci ha ricordato in questi giorni, si rischia di provocare catastrofi.

La distruzione non è una cosa nuova nella cultura del nostro Occidente. Perfino la liberté, insieme alle sorelle égalité e fraternité, hanno dovuto mozzare teste a dismisura per potersi affermare. Perché vedessero la luce i ‘diritti del cittadino’. Subito dopo, infiammata dall’entusiasmo rivoluzionario, una giovane donna di nome Olympe de Gouges pretese di far approvare anche il ‘diritto della donna e della cittadina’, ma mal gliene incolse; i tempi evidentemente non erano maturi e la sua bella testa rotolò anch’essa ai piedi del patibolo.

Il cammino della rivoluzione democratica è sempre stato difficile. Tortuoso e costellato di caduti. Comprese le decine di migliaia di lavoratori che hanno perso la vita per difendere il loro diritto ad una vita un po’ meno infame.

E la democrazia, dopo che si è affermata, per sopravvivere ha bisogno di una base di convivenza civile, di un’equa distribuzione delle risorse, di rispetto per tutti - maggioranza o minoranza che siano - e poi di confronto, di dibattito, di serietà, di dialogo.

Il disprezzo per la nostra Costituzione, che è (o dovrebbe essere) alla base del vivere civile nel nostro paese, nella sua calcolata bilanciatura dei poteri e nella difesa delle libertà individuali (quelle che nei paesi arabi cercano, trovando solo morte e distruzione), è stato sciorinato in tutte le salse dallo Psiconano di Arcore. E dal suo sodale dalla camicia verde. Gente a cui, a sentire le notizie di stampa, non faceva ribrezzo solo la carta fondativa dello Stato, ma anche la carta su cui venivano stampati i bilanci delle aziende di famiglia o del partito. Cosa nostra, pensavano, fregandosene di soci e colleghi. E cosa nostra anche lo Stato, pensarono, aprendo le porte ai festini con capi di stato stranieri nelle lussuose ville private o, più modestamente, aprendo fasulli ‘ministeri del nord’, costati soldi a tutti noi e utili come un frigorifero al Polo.

Adesso, preso da alto senso dello Stato, anche l’ultimo arrivato della schiera dei populisti urlatori, un po’ ubriacato dalla stanchezza e dalla vittoria, ritiene che si debba mettere mano alla Costituzione per cancellare quell’articolo che dichiara una cosa semplice “ogni eletto rappresenta tutta la Nazione e opera senza vincolo di mandato”.

Edmund Burke, nel suo ‘Discorso agli elettori di Bristol’ del 1774, diceva “Il parlamento non è un congresso di ambasciatori di opposti e ostili interessi, interessi che ciascuno deve tutelare come agente o avvocato; il parlamento è assemblea deliberante di una nazione, con un solo interesse, quello dell'intero, dove non dovrebbero essere di guida interessi e pregiudizi locali, ma il bene generale”. Concetto che è stato ribadito pressoché uguale nella Costituzione francese, nello Statuto albertino e nella nostra Costituzione. Sta scritto in Wikipedia, non è una cosa difficile da trovare.

Solo le dittature hanno ritenuto di doverlo cancellare. Non a caso.

L’intento del nostro articolo 67 è quello di evitare che fra gli onorevoli e i senatori siedano le marionette eterodirette già viste nelle loro divise nere durante il ventennio (il primo ventennio, intendo); l’intento di metterci mano invece è quello di evitare che qualcuno si venda (ma in questo caso c’è la magistratura, come insegna il caso De Gregorio e, a breve, Scilipoti e quell’altro) oppure che cambi idea e “tradisca”.

Tradisca. Sempre lì si finisce. L’onorevole deve essere un soldatino decerebrato che acconsente. Sempre; e che sta lì e dice e fa e pensa quello che gli dice il Capo di turno. Come diceva Benito dagli anni ’20, come diceva Silvio dagli anni ’90 e come diceva Umberto insieme a lui. E Adolfo, Francisco, Augusto, Jorge e tutti gli altri.

Quelli che hanno sempre avuto un così forte ‘senso dello Stato’ da stritolarlo fra i loro tentacoli. Roba già vista, insomma.

Commenti all'articolo

  • Di (---.---.---.86) 6 marzo 2013 16:24

    Come è possibile considerare persone con "senso dello Stato" persone che considerano lo Stato l’unione di un territorio sul quale vigono un insieme di leggi? Parlare di Vittorio Emanuele III° di Savoia e di Benito Mussolini come persone con un alto "senso dello Stato" significa con conoscere la storia o meglio falsificarla. Le due emerite persone su citate, hanno dichiarato lo stato di guerra, mandando al fronte la popolazione maschile abile che insisteva sul suolo della penisola italiana, hanno fatto subire i danni di guerra, l’occupazione straniera, fame freddo e lutti alla restante parte della popolazione che allignava su quel suolo il tutto "per avere qualche migliaio di morti da mettere come bottino di guerra al tavolo della pace" questo è stata la motivazione del Duce e questa è stata la motivazione avallata dal Re. Questo non è "senso dello stato" tanto meno dello Stato. N.B. - frase ripresa da "Storia d’Italia VIII° volume 1936-1943 di Indro Montanelli, mai contestata da alcuno. 

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