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 Home page > Tribuna Libera > Il pensiero mafioso da abbattere

Il pensiero mafioso da abbattere

Odiami. Con quanto fiato hai in corpo odiami.

Odia me e la mia stirpe

insegna ad odiarmi alla tua progenie.

Ma fallo con forza, ti prego

che le mie labbra non possano non piegarsi

davanti alla tua pochezza

in un compiaciuto sorriso.

Non è tanto il fatto che un delitto sia accaduto, quanto il fatto che tu ritenga possibile che accada, ciò fa sì che questo delitto sia potenzialmente stato commesso. Ovvero, non è importante che un fatto sia reale, è importante che la gente lo ritenga tale. Questo è il sunto di quanto cercavo di fare capire ad un mio amico riguardo al pensiero mafioso.

Il pensiero mafioso è qualcosa che va al di là dell'atto compiuto, è qualcosa che si insinua dentro di noi e permane come un'esperienza possibile, ancorché non vissuta, di qualcosa, di un danno o una prepotenza subiti. Non è tanto se questa cosa sia realmente accaduta, ma la paura che accada ci fa fare o non fare, ci fa dire o tacere delle cose. Ecco, già in questa fase, già la potenzialità di un danno in seguito ad un torto fa sì che si possa definire il “pensiero mafioso”.

Ovviamente la paura nasce da qualcosa, da un'esperienza propria o di persone a noi vicine, da piccole angherie, da piccoli abusi di potere, da piccole ingiustizie o impunità. Finiscono tutte nel calderone di una minestra, già riscaldata da secoli di storia, che cambia la prospettiva da stato di diritto a stato di favore. Per cui alla fine, quando c'è qualcosa che non va, è meglio andare dal potentino di turno e chiedere. Non già come rivalsa di un nostro diritto, ma appunto come favore personale. E questi potrà accordarci quanto richiesto, se il suo tornaconto di immagine o pecuniario ne ha da guadagnare, come una concessione personale, un deus ex machina che risolve ogni problema, oppure rifiutare adducendo scuse varie, ma senza nemmeno sforzarsi tanto di fantasia. Al contrario possiamo in principio rinunciare non avendo una contropartita da proporre.

L'accettazione implicita di questo modus operandi favorisce il distacco tra amministratori e amministrati, dando ai primi sempre più potere e impunità ed ai secondi sempre meno forza che si traduce nel “tanto sono tutti uguali, è sempre andata così, il popolo è bue”. Di qui la necessità di continuare a parlare, esporre i fatti, evidenziare inadempienze e dissenso e contrapporre proposte, idee. Ma soprattutto di farsi vedere e sentire, far vedere che la gente c'è e non è solo lì ad applaudire, ma anche a ragionare su quanto gli viene detto. Ed il farsi vedere può anche essere solo un “mi piace” su Facebook o un commento lasciato in coda ad un articolo di un blog, ma il solo fatto di mettere il proprio nome, lasciare un segno, in definitiva di esporsi, è già tanto per dire “ci sono anch'io”. Farci vedere ci espone, ci mette fuori, in evidenza, al di là della massa delle persone o fuori da essa, ci fa diventare un bersaglio più facile da colpire. Colpirne uno per educarne cento, così si dice. Ma se da colpire di bersagli iniziano a diventare cento o mille, allora la cosa si fa più complessa, si rischia di dover colpire buona parte della base, di quella parte di popolazione che ci garantisce i voti; si rischia di creare scontento che ci si ritorcerà contro alle prossime elezioni. La necessità quindi sarà quella di comportarsi nel modo migliore possibile, il più irreprensibile al fine di non essere attaccabili ed in definitiva di essere rieletti, se è questo il lavoro cui si mira.

La mafia piace a pochi, principalmente solo a quelli che con essa ci guadagnano, al resto delle persone crea solo danno. Ma una persona da sola non è nulla, tante persone assieme possono fare qualcosa, magari cambiare l'esito di una votazione.

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