Il linguaggio rivelatore. Se di mezzo ci vanno gli animali
Macello umano! Trattati come bestie! Tenuti come degli animali! Ti schiaccio come
una zanzara! Queste sono solo alcune delle espressioni che appartengono al nostro linguaggio (in questo caso l’italiano) e che denotano un elemento su cui vale la pena riflettere. Sono tutte espressioni con accezione negativa ed hanno tutte come soggetti caratteristici gli animali non umani. Se analizziamo parola per parola questi enunciati non capiamo immediatamente perché rimandano semanticamente a qualcosa di negativo. Facciamo un esempio:
(a) Trattati come bestie
Questo enunciato è composto da tre parole: (1) Trattati; (2) come; (3) bestie;
Combinando queste tre parole otteniamo l’enunciato (a), che pur avendo un
significato che potremmo parafrasare dicendo che qualcuno è stato trattato come
bestie, non rimanda comunque a quel significato che comunemente verrebbe
attribuito ad (a) da una comunità di parlanti. Il linguaggio ha in questo caso quella
che potremmo definire una funzione rivelatoria. Affinché (a) possa essere realmente capito da un parlante della lingua italiana quel parlante deve già possedere come insita un’ulteriore conoscenza di cui tuttavia non è sempre realmente consapevole.
Deve cioè conoscere il trattamento delle bestie con cui viene effettuato il paragone.
Si parla spesso della disinformazione comune sulla reale condizione degli animali, eppure, qualcosa su questa condizione sembra essere conosciuto da tutti, ed è proprio il nostro linguaggio, fonte principale di espressione, a rivelarcelo. Enunciati come (a) esemplificano solo una piccola porzione del vocabolario umano che risulta davvero fornito di insulti e costatazioni che hanno come oggetto gli animali. Prendiamo la stessa parola “bestia”, spesso usata senza alcun tipo di contorno linguistico ma già rappresentante un insulto se pronunciata con la giusta intonazione. Perché qualcuno dovrebbe prendere come insulto l’essere definito “bestia”?
Eppure questo accade costantemente come se una sottile forma di razzismo sia insita in ogni parlante, come se la presunta superiorità intellettuale e morale dell’uomo, sia in qualche modo inconscia anche in chi non ha mai riflettuto su questi argomenti. Esiste una tesi in linguistica conosciuta come l’ipotesi Sapir-Whorf secondo cui il linguaggio influenza il pensiero. L’ipotesi forte secondo cui questo sia completamente vero è stata ormai confutata, ma la formulazione debole, secondo cui il meccanismo d’influenza del linguaggio sul pensiero sia in parte vero è comunemente accettata. Ragionando su questo fenomeno sulla scorta di quello che le espressioni anti – animaliste ci rivelano potremmo provare a chiederci: crescere con una lingua colma di artifici linguistici, volti a sottolineare inconsciamente una superiorità dell’uomo nei confronti dell’animale, può in qualche modo contribuire al disinteresse umano nei confronti della questione animale?
Personalmente credo sia possibile. Sin da piccoli, parenti e genitori, sono pronti ad educare il figlio affinché si lavi e non puzzi come un maiale, affinché studi e non diventi un somaro e affinché mangi carne e diventi forte come un bue (che tra l’altro mangia verdura). Penso che una sana riflessione sulle proprie espressioni linguistiche possa giovare a molti parlanti che spesso utilizzano enunciati di cui danno per scontata la valenza semantica ma di cui ignorano la reale e sofferente condizione che questi stessi enunciati denotano. Se il linguaggio è uno specchio attraverso cui guardare l’umanità non è difficile rintracciare i motivi principali che hanno portato allo sfruttamento animale; pulire questo specchio depurando il linguaggio dal suo specismo e razzismo di fondo potrebbe portare in futuro l’uomo a pensare, guardare e agire con più rispetto.
una zanzara! Queste sono solo alcune delle espressioni che appartengono al nostro linguaggio (in questo caso l’italiano) e che denotano un elemento su cui vale la pena riflettere. Sono tutte espressioni con accezione negativa ed hanno tutte come soggetti caratteristici gli animali non umani. Se analizziamo parola per parola questi enunciati non capiamo immediatamente perché rimandano semanticamente a qualcosa di negativo. Facciamo un esempio:
(a) Trattati come bestie
Questo enunciato è composto da tre parole: (1) Trattati; (2) come; (3) bestie;
Combinando queste tre parole otteniamo l’enunciato (a), che pur avendo un
significato che potremmo parafrasare dicendo che qualcuno è stato trattato come
bestie, non rimanda comunque a quel significato che comunemente verrebbe
attribuito ad (a) da una comunità di parlanti. Il linguaggio ha in questo caso quella
che potremmo definire una funzione rivelatoria. Affinché (a) possa essere realmente capito da un parlante della lingua italiana quel parlante deve già possedere come insita un’ulteriore conoscenza di cui tuttavia non è sempre realmente consapevole.
Deve cioè conoscere il trattamento delle bestie con cui viene effettuato il paragone.
Si parla spesso della disinformazione comune sulla reale condizione degli animali, eppure, qualcosa su questa condizione sembra essere conosciuto da tutti, ed è proprio il nostro linguaggio, fonte principale di espressione, a rivelarcelo. Enunciati come (a) esemplificano solo una piccola porzione del vocabolario umano che risulta davvero fornito di insulti e costatazioni che hanno come oggetto gli animali. Prendiamo la stessa parola “bestia”, spesso usata senza alcun tipo di contorno linguistico ma già rappresentante un insulto se pronunciata con la giusta intonazione. Perché qualcuno dovrebbe prendere come insulto l’essere definito “bestia”?
Eppure questo accade costantemente come se una sottile forma di razzismo sia insita in ogni parlante, come se la presunta superiorità intellettuale e morale dell’uomo, sia in qualche modo inconscia anche in chi non ha mai riflettuto su questi argomenti. Esiste una tesi in linguistica conosciuta come l’ipotesi Sapir-Whorf secondo cui il linguaggio influenza il pensiero. L’ipotesi forte secondo cui questo sia completamente vero è stata ormai confutata, ma la formulazione debole, secondo cui il meccanismo d’influenza del linguaggio sul pensiero sia in parte vero è comunemente accettata. Ragionando su questo fenomeno sulla scorta di quello che le espressioni anti – animaliste ci rivelano potremmo provare a chiederci: crescere con una lingua colma di artifici linguistici, volti a sottolineare inconsciamente una superiorità dell’uomo nei confronti dell’animale, può in qualche modo contribuire al disinteresse umano nei confronti della questione animale?
Personalmente credo sia possibile. Sin da piccoli, parenti e genitori, sono pronti ad educare il figlio affinché si lavi e non puzzi come un maiale, affinché studi e non diventi un somaro e affinché mangi carne e diventi forte come un bue (che tra l’altro mangia verdura). Penso che una sana riflessione sulle proprie espressioni linguistiche possa giovare a molti parlanti che spesso utilizzano enunciati di cui danno per scontata la valenza semantica ma di cui ignorano la reale e sofferente condizione che questi stessi enunciati denotano. Se il linguaggio è uno specchio attraverso cui guardare l’umanità non è difficile rintracciare i motivi principali che hanno portato allo sfruttamento animale; pulire questo specchio depurando il linguaggio dal suo specismo e razzismo di fondo potrebbe portare in futuro l’uomo a pensare, guardare e agire con più rispetto.
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