Il governo ha reintegrato i fondi per la cultura. Aumentando le tasse sulla benzina
Il governo ha ripristinato i fondi per la cultura, in un primo momento tagliati dal ministro Tremonti. Come? Imponendo un'accisa di un centesimo sulla benzina.
La settimana della cultura si è aperta con due notizie.
La buona è la reintegrazione dei contributi al FUS (fondo unico per lo spettacolo) tagliati dal Ministro Tremonti. La cattiva è che la copertura finanziaria proverrà da una nuova accisa di un centesimo sui carburanti.
Si tratta di un copione già visto: quando non si sa dove andare a prendere i soldi, si aumentano le tasse sulla benzina. Cioè su un bene di cui nessuno o quasi può fare a meno. E col vantaggio di garantire all'erario risorse continue e sicure. Due piccioni con una fava insomma.
Con buona pace della promessa di non mettere le mani nelle tasche degli italiani. Promessa elettorale, s'intende, equivalente politico e demagogico delle promesse da marinaio.
Mi domando: è possibile che ogni volta servano fondi per una qualsivoglia iniziativa si debba per forza aumentare il carico fiscale? Non sarebbe più logico, oculato e funzionale individuare sprechi e e da lì recuperare le risorse necessarie? Sarebbe bastato unificare il referendum e le amministrative per risparmiare 400 milioni di euro, ma il governo ha preferito scindere le consultazioni in due appuntamenti affinché diventino ciò che la maggioranza desidera, ossia la cartina al tornasole del proprio consenso.
A meno che non vogliamo prendere atto dal Ministro Tremonti che in Italia non ci sono sprechi: che la pubblica amministrazione funziona, che ogni ramo è produttivo, che nel bilancio statale non c'è alcuna voce da tagliare o ridurre.
Inoltre, se proprio era necessario attingere sui carburanti, non si potevano riconvertire alcune accise che, sebbene abbiano esaurito i loro scopi, continuano a pesare sul costo pagato dal consumatore finale? Scorrendo la lista, per dirne una, troviamo un contributo per la ricostruzione in Irpinia post terremoto.
Ricordo ancora le parole del Presidente Napolitano, secondo cui “l'Italia è la superpotenza della cultura mondiale”. Icastica espressione per descrivere la ricchezza dei lasciti della civilizzazione nel nostro paese, ereditata nel corso dei millenni.
La cultura ha molti aspetti. Perciò è facile fraintendersi. A cominciare dalle definizioni.
Il senso comune porta a considerare la “cultura” come sinonimo di “spettacolo”, tralasciando del tutto la necessità di distinguere. Nel nostro paese lo spettacolo impiega più di mezzo milione di persone. A titolo di esempio, abbiamo più di 10000 scuole di ballo (anche se l'unica ad assicurare un'opportunità pare essere quella di Amici), oltre a conservatori in tutte le regioni e a vantare artisti di livello mondiale.
Ma gli artisti propriamente detti sono solo la punta dell'iceberg di un universo di scenografi, macchinisti, truccatori, costumisti, ausiliari e altre manovalanze che, operando dietro le quinte, rendono possibile l'esecuzione degli spettacoli. Quasi tutti precari e con il futuro in forse grazie ai tagli di Tremonti. Tagli che hanno colpito tutti anziché revocare le risorse a chi le riceve senza meritarle.
L'infelice combinazione tra la scarsa considerazione che la cultura ha presso la nostra classe politica e le relazioni clientelari e parentali tra quest'ultima e alcune compagnie “artistiche” o presunte tali, fa sì che gli spiccioli del governo siano destinati a film che nessuno vede o a spettacoli giudicati “culturali” solo perché ideologicamente orientati. In pratica non si premiano le iniziative meritevoli ma si fa assistenzialismo verso il parente o l'amico.
Certo, sanità, giustizia e istruzione sono settori più importanti e hanno la priorità su monumenti e spettacoli, ma non per questo va sminuita l'importanza della cultura. Essa non è solo la principale risorsa che abbiamo, ma è anche l'unica ragione per cui il mondo si ricorda di noi. Ma la classe dirigente, consumata dalle polemiche di parte e in perenne trance agonistica preelettorale, sembra non rendersene conto.
In Italia la cultura si trova in uno stato pietoso. In questo senso, i crolli di Pompei sono stati la ciliegina di una torta avvelenata.
Contaminata dai germi del nepotismo e del favoritismo come ogni altro ambito pubblico, la cultura viene tenuta artificialmente in vita dai contributi (coatti) della collettività anziché attraverso un serio programma di valorizzazione. Senza il quale anche gli ulteriori spiccioli racimolati aumentando la benzina finiranno nell'oblio degli sprechi.
Con buona pace degli automobilisti
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